Page 110 - Gomorra
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dirigersi al Vomero. Nel caso di massimo pericolo avevano previsto di far atterrare un
            elicottero e trasportarlo per aria. Le lepri segnalano che lungo il percorso c'è un'auto
            sospetta. Tutti si aspettano un agguato. Ma è un falso allarme. Trasportano il boss alla
            caserma dei carabinieri in via Pastrengo, nel cuore di Napoli. L'elicottero si abbassa e
            la  polvere  e  il  terriccio  dell'aiuola  al  centro  della  piazza  iniziano  ad  agitarsi  in  un
            mulinello a mezz'aria pieno di buste di plastica, fazzo-lettini di carta, fogli di giornale.
            Un mulinello di spazzatura.


                 Non c'è alcun pericolo. Ma bisogna strillare l'arresto, mostrare che si è riusciti a
            prendere l'imprendibile, ad arrestare il boss. Quando arriva il carosello di blindati e
            volanti,  e  i  carabinieri  vedono  che  i  giornalisti  sono  già  presenti  all'entrata  della
            caserma,  si  siedono  sulla  portiera  dell'auto  a  cavalcioni.  Finestrini  come  sellini,

            impugnano  vistosamente  la  pistola,  hanno  sul  viso  il  passamontagna  e  indossano  la
            pettorina  dei  carabinieri.  Dopo  l'arresto  di  Giovanni  Brusca  non  c'è  carabiniere  e
            poliziotto che non voglia farsi riprendere in quella posizione. Lo sfogo per le nottate
            d'appostamenti, la soddisfazione per la preda catturata, la furbizia da ufficio stampa
            per occupare le prime pagine con certezza. Quando Paolo Di Lauro esce dalla caserma,
            non ha la spavalderia di suo figlio Cosimo, si piega in due, faccia per terra, lascia solo
            la pelata nuda a telecamere e fotografi. È forse soltanto un modo per tutelarsi. Farsi

            fotografare da centinaia di obiettivi da ogni angolatura, farsi riprendere da decine di
            telecamere  avrebbe  mostrato  il  suo  volto  a  tutt'Italia,  facendo  magari  denunciare  a
            ignari vicini di casa di averlo visto, di essergli stati vicino. Meglio non agevolare le
            indagini, meglio non disvelare i propri percorsi clandestini. Ma qualcuno legge la sua
            testa bassa come semplice fastidio per flash e telecamere, il fastidio di essere ridotto a
            bestia da mostra.


                 Dopo alcuni giorni Paolo Di Lauro venne portato in tribunale, nell'aula 215. Presi
            posto  tra  il  pubblico  di  parenti.  L'unica  parola  che  il  boss  pronunciò  fu  "presente".
            Tutto  il  resto  lo  articolò  senza  voce.  Gesti,  occhiolini,  ammiccamenti,  sorrisi,
            divengono la sintassi muta attraverso cui comunica dalla sua gabbia. Saluta, risponde,
            rassicura. Alle mie spalle prese posto un omone brizzolato. Paolo Di Lauro sembrava
            fissarmi,  in  realtà  aveva  intravisto  l'uomo  dietro  me.  Si  guardarono  per  qualche

            secondo, poi il boss gli fece l'occhiolino.

                 Sembrava  che  dopo  aver  saputo  la  notizia  dell'arresto  molti  fossero  venuti  a
            salutare il boss che per anni, a causa della latitanza, non avevano potuto incontrare.
            Paolo Di Lauro era in jeans e polo scura. Ai piedi le Paciotti, le scarpe che indossano

            tutti i dirigenti dei clan da queste parti. I secondini gli liberarono i polsi togliendogli i
            ceppi, le manette. Per lui un'unica gabbia. In aula entra tutto il gotha dei clan del nord
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