Page 112 - Gomorra
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tutte  e  cinque  quando  doveva  spostarsi,  ma  ovviamente  sedeva  solo  in  una.  Tutte  e
            cinque avevano la scorta e nessuno dei suoi uomini sapeva con certezza se nell'auto ci
            fosse  lui  o  meno.  La  macchina  usciva  dalla  villa  e  loro  si  accodavano  dietro  per
            scortarla. Un modo sicuro per evitare tradimenti: fosse anche quello più immediato di
            segnalare  che  il  boss  si  stava  muovendo.  La  signora  lo  raccontava  con  un  tono  di
            profonda commiserazione per la sofferenza e la solitudine di un uomo sempre costretto
            a pensare di essere ammazzato. Dopo le tarantelle di gesti e abbracci, dopo i saluti e

            gli ammiccamenti dei personaggi appartenenti al potere più feroce di Napoli, il vetro
            blindato che separava il boss dagli altri era pieno di tracce di tutt'altro tipo: manate,
            strisce di grasso, ombre di labbra.

                 Dopo meno di ventiquattr'ore dall'arresto del boss, venne trovato alla rotonda di

            Arzano un ragazzo polacco che tremava come una foglia mentre cercava con difficoltà
            di buttare nella spazzatura un enorme fagotto. Il polacco era imbrattato di sangue e la
            paura rendeva difficile ogni suo gesto. Il fagotto era un corpo. Un corpo martoriato,
            torturato,  sfigurato  in  modo  talmente  atroce  che  sembrava  impossibile  si  potesse
            conciare  così  un  corpo.  Una  mina  fatta  inghiottire  a  qualcuno  e  poi  esplosa  nello
            stomaco avrebbe fatto meno scempio. Il corpo era di Edoardo La Monica, ma non si
            distinguevano  più  i  lineamenti.  La  faccia  aveva  soltanto  le  labbra,  il  resto  era  tutto

            sfondato. Il corpo pieno zeppo di buchi era ovunque incrostato di sangue. L'avevano
            legato e poi con una mazza chiodata seviziato lentamente, per ore. Ogni botta sul corpo
            era un foro, botte che non rompevano solo le ossa ma foravano la carne, chiodi che
            entravano e uscivano. Gli avevano tagliato le orecchie, mozzato la lingua, spaccato i
            polsi, cavato gli occhi con un cacciavite, da vivo, da sveglio, da cosciente. E poi per
            ucciderlo gli avevano sfondato la faccia con un martello e con un coltello inciso una

            croce sulle labbra. Il corpo doveva finire nella spazzatura per farlo ritrovare marcio,
            tra la monnezza in una discarica. Il messaggio scritto sulla carne viene da tutti decifrato
            con chiarezza, anche se non vi sono altre prove che quella tortura. Tagliate le orecchie
            con cui hai sentito dove il boss era nascosto, spezzati i polsi con cui hai mosso le mani
            per ricevere i soldi, cavati gli occhi con cui hai visto, tagliata la lingua con la quale hai
            parlato.  La  faccia  sfondata  che  hai  perso  dinanzi  al  Sistema  facendo  quello  che  hai
            fatto. Sigillate le labbra con la croce: chiuse per sempre dalla fede che hai tradito.

            Edoardo La Monica era incensurato. Un cognome pesantissimo il suo, quello di una
            delle famiglie che avevano reso Secondigliano terra di camorra e miniera d'affari. La
            famiglia  dove  Paolo  Di  Lauro  aveva  mosso  i  primi  passi.  La  morte  di  Edoardo  La
            Monica  somiglia  a  quella  di  Giulio  Ruggiero.  Entrambi  dilaniati,  torturati  con
            meticolosità a poche ore dagli arresti dei boss. Scarnificati, pestati, squartati, scuoiati.

            Da  anni  non  si  vedevano  più  omicidi  con  così  tanta  diligente  e  sanguinaria  volontà
            simbolica: con la fine del potere di Cutolo e del suo killer Pasquale Barra detto "'o
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