Page 41 - Amici come prima. Storie di mafia e politica
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Quando la famiglia D'Alí decide di vendere la Banca Sicula alla Banca
          commerciale  italiana,  nel  consiglio  di  amministrazione  e  nell'assemblea
          degli azionisti, si apre una forte discussione e un vero e proprio scontro. I
          soci  di  minoranza  protestano  perché  non  si  sentono  tutelati  da  una

          ricapitalizzazione  dell'Istituto  finalizzata,  a  loro  dire,  ad  alzarne  il  prezzo
          nella trattativa con i vertici della banca milanese e ad aumentare il potere
          dei soci di maggioranza, cioè gli uomini della famiglia D'Alí. Per portare a
          compimento  l'operazione,  alla  famiglia  D'Alí  serve  una  persona  di  cui

          fidarsi, un esperto di tecniche bancarie che li garantisca come presidente
          del  collegio  dei  sindaci  della  banca  e  come  consigliere  per  la  ricerca  e
          l'acquisizione di capitali freschi.
              Arriva a Trapani il professore Giuseppe Provenzano. La cosa, dopo le

          ormai  note  vicissitudini  giudiziarie  e  le  nuove  operazioni  messe  in  atto
          dalla banca, insospettisce la questura di Trapani, che vuole vedere chiaro
          sulla  provenienza  dei  miliardi  da  utilizzare  nella  ricapitalizzazione  della
          banca e sui rapporti tra la famiglia D'Alí, il professor Provenzano e alcuni

          uomini coinvolti in vecchie inchieste di mafia.
              Il nome di uno dei due anziani fratelli, Antonio D'Alí, per anni presidente
          della banca, è negli elenchi pubblicati dalla commissione parlamentare di
          indagine sulla loggia massonica P2 diretta da Licio Gelli: la qualifica è di

          «massone in sonno», anche se questo non ridimensiona l'importanza della
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          rivelazione .
              Non  è  neanche  un  mistero  che  il  reggente  delle  terre  e  delle  tenute
          della  famiglia  D'Alí,  in  contrada  Zangara  a  Castelvetrano,  sia  uno  dei

          patriarchi della mafia trapanese, Francesco Messina Denaro. Il boss lavora
          da  sempre  per  i  D'Alí,  gestisce  le  loro  campagne,  sceglie  lui,  di  anno  in
          anno, cosa seminare e dove indirizzare le attività agricole, come è nella

          tradizione  dei  vecchi  campieri,  partecipa  alle  feste  di  famiglia,  è  tra  gli
          invitati ai matrimoni dei diversi componenti. Ritorna nelle loro terre anche
          dopo un periodo di soggiorno obbligato fuori dalla Sicilia inflittogli, sempre
          per fatti di mafia, già a metà degli anni '60. Vi rimarrà fino a quando, nei
          primi anni '90, ricercato dalla polizia, deciderà di scomparire e darsi alla

          latitanza.
              Sempre su quelle terre, dalle quali probabilmente non si era mai mosso,
          secondo un vecchio copione dei grandi boss di Cosa nostra, la mattina del

          30  novembre  1998  verrà  trovato  il  suo  corpo  senza  vita,  deceduto  per
          cause naturali.
              Durante la latitanza del padre, nella stessa tenuta continua a lavorare il
          figlio,  regolarmente  assunto  e  con  tutti  i  contributi  previdenziali  versati
          all'Inps sino ai primi anni '90: si tratta di Matteo Messina Denaro, che vi

          rimane fino a poco tempo prima della strage di Capaci, quando, anche lui,
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