Page 1783 - Shakespeare - Vol. 4
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cui è dedicata l’introduzione), e cioè di quell’insieme di fattori interrelati la cui
          generale  significazione,  sottesa  a  un  testo,  rafforza,  o  contraddice,  i  suoi
          significati  manifesti.  Nel  primo  sonetto  analizzato  (87)  i  due  sistemi
          connotativi individuati e la generale ironia che li sottende paiono convogliare

          il senso di una prepotente autoaffermazione, che inficia l’elogio del fair youth
          e l’autodenigrazione del poeta costituenti il «tema» di superficie. Negli altri
          due sonetti presi in esame, invece (86 e 104), le connotazioni emergenti da
          elementi  di  varia  natura  (sintattici,  fonosimbolici  ecc.)  concorrono

          all’emersione  di  significati  che  si  allineano  sostanzialmente  a  quelli
          denotativi:  cioè  a  dire,  l’orgogliosa  affermazione  della  coscienza  e
          dell’indipendenza  del  valore  creativo  nel  primo,  il  conflitto  esistenziale  fra
          l’uomo  e  il  tempo,  vinto  nel  verso  poetico  che  si  erge  a  nullificarlo,  nel

          secondo.
          La  raccolta  di  saggi  critici  curata  da  Hilton  Landry New  Essays  on
          Shakespeare’s Sonnets (1976) − che segue a quella del 1963, sempre a cura
          di Landry −, comprende una serie di studi effettuati, per la gran parte, da

          autori  che  già  si  erano  cimentati  in  passato  con  analisi  o  commentari  dei
          Sonetti.  I  temi  toccati  riprendono:  la  dicotomia  tra friendship  spirituale
          classicamente intesa, il cui oggetto è sempre un uomo, e courtly love ove si
          presuppone «una tensione di conquista dell’oggetto sessuale» (R. Poisson),

          l’ordine  di  successione  della  sequenza  (M.  Seymour-Smith),  l’uso  della
          imagery e la frequente divisione fra ottava e sestina (W.G. Ingram), il senso
          del fluire temporale in alcuni sonetti (W. Nowottny), la supremazia dei valori
          di verità su quelli estetici (A.M. Pirkhofer); e ancora, la difesa della validità

          dei Sonetti contro la critica negativa di alcuni commentatori del passato (H.
          Landry), il confronto fra la punteggiatura dell’in-quarto del 1609 e quella delle
          edizioni successive (T. Redpath).
          Nel  curare  una  nuova  edizione  dei Sonetti  per  la  Yale  University  Press

          (Shakespeare’s  Sonnets,  1977),  e  corredandola  di  un  amplissimo
          commentario, Stephen Booth riprende il discorso iniziato, otto anni prima, con
          il suo Essay on Shakespeare’s Sonnets, non aggiungendovi, tuttavia, molto di
          nuovo. Gli articolati commenti ai singoli sonetti includono spesso note estese,

          che  costituiscono  quasi  piccoli  saggi  a  sé  stanti.  Le  note  più  interessanti
          riguardano la funzione della critica, su cui il Booth si sofferma sostenendo il
          principio  empsoniano,  ormai  condiviso  dai  più,  della  opportunità  di  una
          esegesi che tenga conto non soltanto dei significati palesi, ma di tutte le loro

          implicazioni.  Particolarmente  esteso  è  il  commento  al  sonetto  146,  in  cui
          Booth  discute  un  saggio  di  Donald  Stauffer  del  1943  che  registrava  la
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