Page 1780 - Shakespeare - Vol. 4
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o  l’affermazione  sociale,  i  guasti  della  lussuria  o  l’avvilimento  e  il  trionfo
          dell’anima)» (p. 215), scaturisca una riflessione sostanzialmente ambivalente
          sulla  condizione  umana,  ove  «un  giudizio  apparentemente  negativo  è
          controbilanciato da un profondo senso di carità e di solidarietà» (p. 216); in

          ciò, aggiunge Melchiori, aderendo all’atteggiamento emergente nelle grandi
          tragedie  e  negli history  plays.  Giova  ribadire  che  Melchiori  perviene  a  tali
          conclusioni  −  purtroppo  terribilmente  semplificate  e  riduttive  nella
          esposizione sommaria che qui se ne è data − attraverso un capillare rilievo di

          strutture interne e confronto di dati che le pone gradatamente in luce lungo
          un percorso di «lettura» straordinariamente avvincente.
          L’assunto di Katharine Wilson, asserito come incontrovertibile nelle quasi 400
          pagine del suo Shakespeare’s Sugared Sonnets (1974), è invece che l’intero

          canzoniere  costituisca  una  deliberata  parodia  della  voga  sonettistica
          «zuccherosa».  Partendo  dalla  satira  su  tale  voga  −  e,  più  genericamente,
          sugli artifici linguistici e comportamentali inerenti al canone amoroso cortese
          e neoplatonico − individuabile in alcune commedie shakespeariane, la Wilson

          ritiene  di  rendere  giustizia  a  Shakespeare  attribuendogli  una  coerenza
          d’opinione che appunto si esprimerebbe nella presa in giro continuata, messa
          in  atto  nei  suoi  154  sonetti,  di  modalità  e  contenuti  ricorrenti  nei  vari
          canzonieri  epocali.  Prova  inconfutabile  di  tale  tesi  costituirebbero,

          innanzitutto,  gli  elementi  macroscopicamente  antitradizionali,  quali  la
          presenza,  in  apertura,  di  una  sequenza  matrimoniale,  le  apostrofi  e  i
          commenti denigratori rivolti alla dama bruna, la serie di sonetti indirizzati a
          un uomo nei termini convenzionalmente destinati a una donna. Il proposito di

          Shakespeare  sarebbe  stato  duplice,  secondo  la  Wilson:  di  parodiare
          criticamente  gli  stereotipi  di  una  voga  discutibile  e  di  porre  in  ridicolo,
          estremizzandoli, i due atteggiamenti d’amore (spirituale e terreno) delineati
          da Platone nel Symposium e nel Fedro.

          Per  dimostrare  tale  tesi  vengono  passati  in  rassegna tutti  i  sonetti
          (anteponendo, senza una giustificazione, quelli dedicati alla dark lady), di cui
          sono  poste  capillarmente  in  evidenza  analogie  tematiche,  lessicali  o  di
          imagery con altri canzonieri. Il sistematico confronto con passi da Ovidio, da

          Erasmo, e con sonetti di Barnes, Constable, Surrey, Wyatt, Watson, J. Davies
          Hereford, Greville, Sidney, Spenser, Daniel e Drayton (quest’ultimo indicato,
          unico,  come  autore,  anziché  oggetto,  di  prestiti)  appare  in  qualche  punto
          interessante per l’appropriatezza dei riscontri analogici; ma risulta oltremodo

          disturbante la categorica e insistita pretesa di individuare l’intento parodistico
          quasi  in  ogni  verso  shakespeariano,  anche  −  inutile  dirlo  −  nei  sonetti
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