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si vede».
Per i disgregatori, da una collaborazione non c’è da attendersi disegno
unitario o struttura coerente, e tantomeno personaggi credibili. Da qui una
serie di giudizi estremi: «Le disjecta membra di quella che avrebbe potuto
essere una grande tragedia si possono a malapena identificare nel fiume
della declamazione» (Marjorie Nicholson); l’Enrico VIII è «meno interessante
di qualsiasi altro dramma shakespeariano» (J.C. Maxwell); oppure giudizi più
meditati ma riduttivi come quelli del già citato A.R. Humphreys, curatore
dell’edizione New Penguin, il quale rileva evidenti «salti di tensione» nelle
scene maggiori, ove ogni climax è imperfetto o irrisolto, senza che scena
scaturisca da scena per un’intrinseca dinamica interna. Quel felice
contrappunto tra ambienti e registri stilistici contrastanti, così ben orchestrato
nell’Enrico IV − sostiene il critico − qui verrebbe a mancare. E proprio perché
l’opera è stata scritta a due mani.
Tra i critici reintegratori si sostiene, al contrario, la sostanziale unità
strutturale del dramma, e la riuscita integrazione dei diversi elementi. Ma ad
una più piena rivalutazione dell’opera è stata d’ostacolo una riluttanza, ben
indicata dal Baldini:
Immediatamente prima della Famous History Shakespeare compose The Tempest che, com’è noto, è
sempre stata calcolata dai critici una specie di somma ed epitome di tutto il suo teatro: non solo la sua
suprema esperienza di poeta, e quasi il suo messaggio religioso, ma anche e soprattutto l’occasione in cui
egli avrebbe espresso in forma singolarmente lucida la sostanza del suo atteggiamento verso l’uomo e
verso la poesia. [...] Giunti a librarsi sulle ali di quel preteso ultimo canto shakespeariano, i critici si sentono
autorizzati a chiudere. E la nota di pacata saggezza che quel canto suggerisce è, di fatto, la nota giusta
della chiusura, dell’accordo finale. Prendere in esame, in quel punto così delicato, la questione di Henry
VIII, significa riaprire tutta un’architettura di considerazioni che si era faticosamente saldata, risolta; e
soprattutto interrompere quell’eco della nota conclusiva che la convenzionale interpretazione di The
Tempest aveva fatto risuonare così armoniosa. È significativo che una gran parte dei critici, giunti a quel
punto, si scordino o facciano finta di scordarsi di Henry VIII. È successo al grandissimo Coleridge, è
successo all’onesto Middleton Murry, ed è successo persino a Lily B. Campbell e a E.M.W. Tillyard nei loro
due libri dedicati proprio al “genere” di cui Henry VIII offre l’ultimo esempio.
Insomma, questa “cronaca storica” alla vecchia maniera è come l’ospite che
si presenta in ritardo ad una grande serata d’addio. A metterlo a suo agio tra
gli ospiti della festa − i romances della fase crepuscolare di Shakespeare −
ha provato il già citato R.A. Foakes nell’edizione New Arden dell’opera, in un
convincente tentativo di integrazione tematica. I romances, osserva lo
studioso, non sono incentrati su un singolo tema dominante, così come
manca in essi una vera figura di protagonista, né si vuole scavare in
psicologie individuali. Al centro di tali drammi opera “a sense of range”: una