Page 1464 - Shakespeare - Vol. 4
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si vede».
          Per  i  disgregatori,  da  una  collaborazione  non  c’è  da  attendersi  disegno
          unitario o struttura coerente, e tantomeno personaggi credibili. Da qui una
          serie  di  giudizi  estremi:  «Le disjecta membra di quella che avrebbe potuto

          essere  una  grande  tragedia  si  possono  a  malapena  identificare  nel  fiume
          della declamazione» (Marjorie Nicholson); l’Enrico VIII è «meno interessante
          di qualsiasi altro dramma shakespeariano» (J.C. Maxwell); oppure giudizi più
          meditati  ma  riduttivi  come  quelli  del  già  citato  A.R.  Humphreys,  curatore

          dell’edizione  New  Penguin,  il  quale  rileva  evidenti  «salti  di  tensione»  nelle
          scene  maggiori,  ove  ogni climax  è  imperfetto  o  irrisolto,  senza  che  scena
          scaturisca  da  scena  per  un’intrinseca  dinamica  interna.  Quel  felice
          contrappunto tra ambienti e registri stilistici contrastanti, così ben orchestrato

          nell’Enrico IV − sostiene il critico − qui verrebbe a mancare. E proprio perché
          l’opera è stata scritta a due mani.
          Tra  i  critici  reintegratori  si  sostiene,  al  contrario,  la  sostanziale  unità
          strutturale del dramma, e la riuscita integrazione dei diversi elementi. Ma ad

          una più piena rivalutazione dell’opera è stata d’ostacolo una riluttanza, ben
          indicata dal Baldini:



              Immediatamente prima della Famous History Shakespeare compose The Tempest che, com’è noto, è
          sempre stata calcolata dai critici una specie di somma ed epitome di tutto il suo teatro: non solo la sua
          suprema esperienza di poeta, e quasi il suo messaggio religioso, ma anche e soprattutto l’occasione in cui
          egli  avrebbe  espresso  in  forma  singolarmente  lucida  la  sostanza  del  suo  atteggiamento  verso  l’uomo  e
          verso la poesia. [...] Giunti a librarsi sulle ali di quel preteso ultimo canto shakespeariano, i critici si sentono
          autorizzati a chiudere. E la nota di pacata saggezza che quel canto suggerisce è, di fatto, la nota giusta
          della  chiusura,  dell’accordo  finale.  Prendere  in  esame,  in  quel  punto  così  delicato,  la  questione  di Henry
          VIII,  significa  riaprire  tutta  un’architettura  di  considerazioni  che  si  era  faticosamente  saldata,  risolta;  e
          soprattutto  interrompere  quell’eco  della  nota  conclusiva  che  la  convenzionale  interpretazione  di The
          Tempest aveva fatto risuonare così armoniosa. È significativo che una gran parte dei critici, giunti a quel
          punto,  si  scordino  o  facciano  finta  di  scordarsi  di Henry VIII.  È  successo  al  grandissimo  Coleridge,  è
          successo all’onesto Middleton Murry, ed è successo persino a Lily B. Campbell e a E.M.W. Tillyard nei loro
          due libri dedicati proprio al “genere” di cui Henry VIII offre l’ultimo esempio.


          Insomma, questa “cronaca storica” alla vecchia maniera è come l’ospite che

          si presenta in ritardo ad una grande serata d’addio. A metterlo a suo agio tra
          gli ospiti della festa − i romances della fase crepuscolare di Shakespeare −
          ha provato il già citato R.A. Foakes nell’edizione New Arden dell’opera, in un
          convincente  tentativo  di  integrazione  tematica.  I romances,  osserva  lo

          studioso,  non  sono  incentrati  su  un  singolo  tema  dominante,  così  come
          manca  in  essi  una  vera  figura  di  protagonista,  né  si  vuole  scavare  in
          psicologie individuali. Al centro di tali drammi opera “a sense of range”: una
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