Page 1459 - Shakespeare - Vol. 4
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mentis dell’uomo di potere. La storia (quella vera) c’insegna che di fronte al
praemunire il Cardinale crollò in modo pietoso − anche se le sue fortune si
eran da tempo offuscate. Egli sapeva che un Parlamento di nobili e borghesi
avrebbe chiesto e ottenuto la sua testa, e che l’unico modo di uscirne vivo
sarebbe stata la rinuncia spontanea a tutto ciò ch’era comunque perduto. Ma
nel personaggio-Wolsey la transizione dall’arroganza del potere alla
liberatoria rinuncia alle pompe del mondo è troppo bella per essere vera: la
caduta di Lucifero fu sì meteorica, ma la sua redenzione è ancora di là da
venire. Resta il valore edificante del messaggio finale − un messaggio per
tutte le stagioni − con la retorica della libertà dello spirito e le ricorrenti
immagini: il peso, il fardello, il carico, l’oppressione, da sempre inseparabili
dall’esercizio del potere e frequenti qui come in nessun altro dramma. E non
si esce dalla convenzione: la caduta dei potenti è la condanna della superbia
− il peccato degli angeli − condanna che avviene solo quando tutto è
perduto. (Nel contemporaneo Vita e morte di Thomas, Lord Cromwell, 1609-
1611, è lo stesso Cromwell che, sul patibolo, trasmette al figlio l’eterno
messaggio: «All’ambizione, come alla peste, cerca tu di sfuggire».) Fuori della
convenzione è invece l’epitaffio a due mani, che Caterina e Griffith −
l’«onesto cronista» − compongono in morte del Cardinale: una sorta di partita
doppia, fatta di luci ed ombre, di grandi vizi e grandi virtù. Shakespeare, al
solito, non prende posizione, e lascia al lettore il giudizio morale.
Diverso il caso di Caterina, unica vittima affatto incolpevole. La sua caduta è
annunciata da una sequela di segnali, che di scena in scena ci danno il senso
dell’inevitabile: l’incontro con Anna Bolena (I, iv), le voci di separazione (II, i),
la coscienza turbata del Re (II, ii), le insinuazioni della Dama di compagnia
(II, iii), il processo di divorzio, con la ricusazione dei giudici (II, iv), la
missione dei due cardinali (III, i): una volta messo in moto, nulla può più
arrestare il meccanismo perverso della ragion di stato, e non c’è virtù
personale che tenga, di fronte alla forza delle circostanze. Dell’avvenuto
divorzio veniamo a conoscenza, in breve, da uno dei Gentiluomini. La Regina
è lasciata al suo destino (né ci viene detto se Enrico è andato a congedarsi da
lei), per dare addio alla vita con la pietas cristiana che è sempre stata sua.
La caratterizzazione di Caterina (assai sommaria nelle fonti) è per lo più in
chiave di pathos e di contenuta elegia, ma anche l’edificante retorica della
Visione è compensata da un tocco umanissimo, tipicamente shakespeariano:
la collera verso il Messaggero che ha fatto irruzione sulla scena. Nella
celebrazione della Pazienza uno scatto d’impazienza ci ricorda che Caterina
non è ancora assunta in cielo. Per il resto, la Regina buona e virtuosa, fedele