Page 1454 - Shakespeare - Vol. 4
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tattico accorto, iniziatore e dominatore degli eventi. Una sorta di eclisse
parziale offusca il sole di quest’altro Enrico, il quale non genera l’azione, ma
sembra piuttosto subirla (e d’altronde l’Enrico VIII della storia reale non era
uomo da perseguire con coerenza strategie politiche di largo respiro).
Il vero perno attorno a cui ruota il dramma e che “tiene” e sostiene il ruolo di
Enrico è la consapevolezza, da parte dello spettatore, che alla guida del
paese vi è un’autorità sostanzialmente benigna, garante di legittimità e
giustizia, sostenuta dall’affetto dei sudditi, nonostante errori e abusi
perpetrati in suo nome; oggetto di appassionate professioni di lealtà da parte
delle sue stesse vittime, che sono in realtà vittime delle circostanze piuttosto
che dell’arbitrio del Re. Il quale giudica e manda a morte, con sentenza senza
appello, ma nel rispetto di ogni garanzia legale: le solenni coreografie, coi
dignitari che prendono posizione nei loro scranni in un ordine rigidamente
codificato, sottolineano l’identificazione della maestà del sovrano con la
maestà della legge, laddove i Buckingham e i Wolsey impersonano la
tendenza all’arbitrio, al sovvertimento dell’Ordine.
Dunque, come si è detto, molti ritengono che il personaggio del Re non
convince, che «attraversa una gamma di aspetti − credulità, rigore,
infatuazione, ambigua fedeltà, fervore teologico e astuto machiavellismo −
senza che nessuno di essi abbia molto a che fare con gli altri» (A.R.
Humphreys). È più giusto dire che il personaggio è contraddittorio, che trova
difficile il mestiere di re, e che il dramma è l’illustrazione scenica di un arduo
apprendistato. Egli entra in scena in ritardo − rispetto alla convenzione dei
drammi storici − e si «appoggia alla spalla del Cardinale»: la didascalia
sottolinea l’ascendente di costui, come l’inclinazione del Re a delegare
l’azione di governo. Ma per quanto all’oscuro di importanti decisioni, per
quanto in declino agli occhi dei sudditi, affascinati dalle pompe e dai simulacri
del potere (che non a caso stan tanto a cuore a Wolsey), la sua autorità è
fuori discussione. È finito il tempo in cui i grandi del reame potevano
contestare l’autorità del sovrano, finito il tempo delle congiure e delle
ribellioni, esorcizzato nelle tetralogie shakespeariane. In una monarchia
assestata su complessi equilibri, ma ormai forte e sicura come quella dei
Tudor, la tragica partita delle umane ambizioni si gioca tutta sul favore del
Re. La lotta politica, al di là delle scelte di campo − Francia o Spagna,
ortodossia o Riforma − si fa lotta incessante di consorterie nobiliari e si
consuma all’interno del Palazzo, come su una scacchiera: dove l’ultima mossa
spetterà sempre al Re.
È lui pertanto (o nonostante tutto) a tirare le fila: un Gran Burattinaio, ora