Page 1453 - Shakespeare - Vol. 4
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clessidra e della pendola, tale è la calibrata geometria del movimento). In
          Enrico VIII il poeta compensa una certa staticità strutturale con l’irregolarità
          delle  spinte  ondulatorie:  dall’onda  breve  e  rabbiosa  di  Buckingham  che  si
          frange  sul  poderoso  scoglio  rappresentato  da  Wolsey,  all’onda  lunga  e

          possente che sospinge quest’ultimo ad altezze vertiginose per poi scagliarlo,
          annichilito,  ai  piedi  del  Re;  e  ancora  all’onda  lunga  e  bassa  −  il  lento  ma
          inesorabile riflusso della marea che trascina con sé Caterina, mentre si leva la
          marea montante di Anna e di Cranmer, spazzando via ogni ostacolo.

          Altrettanto fluida, all’interno d’una struttura − come s’è visto − tutt’altro che
          episodica, è la circolazione tematica. Ai grandi temi tradizionali del dramma
          storico  (tentazioni  e  rischi  del  potere,  lusinghe  e  caducità  delle  ambizioni
          terrene) se ne affiancano altri che hanno occupato la fantasia di Shakespeare

          in  anni  recenti.  Al  tema  centrale  della  giustizia  (e  ingiustizia)  degli  uomini
          fanno corona quelli della pazienza (o fortitudine nell’avversità), del perdono,
          della restituzione di ciò che fu perduto o usurpato, della speranza del mondo,
          affidata  a  forze  giovani  e  incorrotte,  della  conoscenza  di  sé  pagata  a  caro

          prezzo, con catarsi finale. Il movimento − osserva R.A. Foakes, che meglio
          d’altri ha rilevato i nessi coi precedenti romances − «è da un passato oscuro
          a un luminoso presente, con la promessa d’un futuro ancor più luminoso»; e
          in Enrico VIII il poeta non fa che ripresentare «quella stessa visione della vita

          che gli ultimi drammi han presentato in chiave di avventura romanzesca, di
          simbolo, di mito». I protagonisti, perdenti o vincenti che siano, conchiudono
          la loro parabola umana nell’esercizio di una carità attiva e di uno spirito di
          riconciliazione  che  fanno  da leit-motiv in tutta la fase finale dell’esperienza

          artistica di Shakespeare.
          Ma chi sono i protagonisti del dramma? Esiste un protagonista principale ed è
          il Re, o questi non è per caso quel Cardinale che per due terzi dello spettacolo
          usurpa  il  potere  reale  e,  assente  dalla  scena,  continua  a  dominarla  nelle

          evocazioni di amici e nemici? Le due parti si equivalgono, come numero di
          battute (insieme assommano quasi un terzo dell’intero testo), ma il ruolo del
          Cardinale è tale da farne, nella consuetudine scenica, il cavallo di battaglia
          del “grande attore” di turno (memorabili, nella storia del teatro inglese, le

          interpretazioni di John Philip Kemble nel periodo della Reggenza, di Charles
          Kean a metà Ottocento e di Henry Irving alla fine del secolo).
          È proprio Wolsey il principale problema del monarca; e se vogliamo restituire
          a quest’ultimo quella centralità che, a detta di tanti, gli fa difetto, dovremo

          fare una scelta consapevole.
          La centralità del Re infatti non è quella, solare, di un Enrico V, stratega nato e
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