Page 1457 - Shakespeare - Vol. 4
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Di queste tragedie individuali, quella di Buckingham si consuma nell’arco di
tempo più breve. La sua sorte è segnata sin dalla fine di una scena iniziale
splendidamente carica di energia e di tensione. La personalità del Duca −
altera, risentita e pugnace − è già tutta qui. Lo arrestano, ed egli sa di non
aver scampo. L’uomo che lo accusa − non troppo sicuro del fatto suo − è
chiaramente imbeccato da Wolsey; l’esito del processo può dirsi scontato.
Esso fu «nobilmente condotto» dichiara Buckingham dopo il verdetto, nella
scena d’addio: «con tali prove, non poteva esserci altra sentenza». Ma si
professa vittima di trame oscure. Rimane il dubbio: se ingiustizia c’è stata, la
colpa è di Wolsey, non certo del Re. Innocente o colpevole, lo spettatore
parteggia per Buckingham, tradito − come altri eroi shakespeariani −
dall’indole focosa, da una generosità incauta, che ignora il compromesso e la
paura.
L’addio di Buckingham alla vita, e al mondo che fu suo − quasi un’unica
protratta orazione − è stata paragonata alla scena della deposizione in
Riccardo II. Wilson Knight parla di «rassegnazione che può dirsi cristiana»,
sopravvalutando sia la statura morale dell’uomo («una serenità e dolcezza
distillata dalla più fine essenza della nobiltà, cortesia, sofferenza e fede
religiosa») sia la qualità lirica dell’addio, la sua natura musicale e ondulatoria
(lilting). Sono proprio queste «cadenze languide e manierate» che indussero
più di un critico ad attribuire il commiato di Buckingham alla penna del
Fletcher, in contrasto con la veemenza della scena iniziale, questa sì affatto
shakespeariana. Più che indice di rigenerazione o di grandezza morale,
questa orazione è l’espressione di una nobiltà “fisica”. L’uomo rimane in
morte quel che era stato in vita: un purosangue. Evaporati risentimenti e
ambizioni terrene, resta intatto l’orgoglio aristocratico. I toni di perdono, quel
rimettere l’anima a Dio, sono gli accenti convenzionali di chi vuole uscire
nobilmente di scena. Il Duca dimostra al suo Re, ai pochi amici ed ai molti
nemici di saper perdere con la fierezza e l’eleganza di sempre. Egli dà a tutti
una lezione di stile.
Nel caso di Wolsey, al contrario, si assiste a una conversione in piena regola,
e quindi al tentativo di rappresentare in forma drammatica un processo
interiore sicuramente complesso. Il personaggio è controverso, nel bene e nel
male, ed è una delle “bestie nere” della storiografia Tudor e, in generale,
dell’Inghilterra protestante: la personificazione dello strapotere del clero e
della sua infinita capacità d’intrigo (vera o presunta) e d’ingerenza nella vita
del paese. Lo spettatore elisabettiano è naturalmente prevenuto nei confronti
di ogni porporato che si presenti in scena e sin dalle prime battute di questo