Page 1455 - Shakespeare - Vol. 4
P. 1455

calcolatore, discreto, sornione, ora impulsivo, invadente, estroverso; talvolta
          ingenuo (o fa finta di esserlo?). Emblematico quel suo stare alla finestra, a
          spiar la tentata umiliazione di Cranmer: «Accostiamo la tenda» − sussurra al
          Dottor Butts. Il Re ha armato Cranmer di un talismano invincibile − l’anello

          regale − e ora viene a godersi lo spettacolo. Nel variegato, insidioso contesto
          di  una  corte  rinascimentale  il  sovrano  gioca  coi  cortigiani  −  ormai  ha
          imparato a conoscerli − e li rimette in riga: un po’ come Prospero nella sua
          isola, alle prese con i malfidi naufraghi de La Tempesta. La bacchetta magica

          del  Duca  di  Milano  diventa  lo  scettro  di  un  Re  d’Inghilterra  che,
          nell’immaginario  popolare,  rimane  una  figura larger  than  life,  una  sorta  di
          orco bonario o di gigante allegro e sensuale, tanto più benvoluto in quanto
          non  esente  da  errori,  debolezze  e  passioni  che  lo  fan  più  vicino  al  sentire

          comune.  Tutt’altro  che  un  sovrano  ideale  (di  sovrani  ideali  il  poeta  ne  ha
          creato  uno  solo,  il  vincitore  di  Agincourt:  e  su  quell’uno  c’è  molto  da
          discutere),  egli  governa by  trial  and  error,  ma  governa  e  sa  farsi  valere.
          Anche  se  sulla  scena  lo  si  è  troppo  spesso  rappresentato  seguendo

          l’immagine  convenzionale  e  un  po’  falstaffiana  dei  ritratti  di  Holbein  −
          rossigno  e  corpulento,  e  drappeggiato  da  pesanti  costumi  −  il  suo  ruolo  è
          quello  di  un  giovane,  spirante  vigore  fisico  e  rude  franchezza:  quasi  un
          secondo Enrico V, ma più irruento e umorale.

          Giovane, dunque, e certamente inesperto, la sua funzione si va facendo, man
          mano che il dramma procede, sempre più incisiva. Lo intravediamo dapprima
          a distanza, nel Campo del Drappo d’Oro, che rivaleggia in splendore con il
          monarca francese; ma ci viene detto che guerra, pace e alleanze sono decise

          da Wolsey, non da lui. Se la politica estera non va troppo bene, peggiore è lo
          stato  dell’economia,  e  l’ordine  pubblico  lascia  a  desiderare.  «Imposte?  Ma
          quando? E quali imposte?» esclama il Re. «Parola mia, tutto questo va contro
          al mio volere!» Enrico è l’ultimo a sapere. Ma basta informarlo, e lui rimette

          le cose a posto. E se poi si rivela impulsivo nel dare credito all’Intendente di
          Buckingham,  affida  però  la  sentenza  alla  maestà  impersonale  della  Legge
          scritta («Se gli sarà possibile trovar clemenza nella legge, l’avrà»).
          Dopo  la  comparsa,  fugace  ma  significativa,  al  ballo  del  Cardinale,  ed  il

          fatidico incontro con Anna, lo ritroviamo in ben altra disposizione di spirito,
          curvo sui libri. Chi viene a parlargli di affari di stato è cacciato in malo modo,
          ad  eccezione  di  Wolsey:  il  Re,  entrato  in  crisi,  ha  ora  bisogno  di  esperti
          consigli.  Se  è  vero  −  come  dicono  le  malelingue  −  che his  conscience  has

          crept  too  near  another  lady,  è  anche  vero  che  il  suo  primo  problema  è
          assicurare un erede alla dinastia. Anna ha precipitato la crisi, ma resta pur
   1450   1451   1452   1453   1454   1455   1456   1457   1458   1459   1460