Page 1456 - Shakespeare - Vol. 4
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sempre il mezzo, non il fine, dell’azione del Re, il quale, di fronte alla corte
          ecclesiastica, dà una testimonianza sofferta e a suo modo sincera del proprio
          travaglio personale, e appare ormai spiritualmente affrancato dalla tutela di
          Wolsey e di Roma.

          Lo smascheramento di Wolsey è il climax del dramma, sia per la tensione che
          lo accompagna sia perché da questo momento il Re assume il controllo totale
          della corte. È strano (e in verità un po’ comico) che il Re non sappia degli
          illeciti  arricchimenti  del  suo  braccio  destro.  Forse  non  cercava  che  un

          pretesto,  e  il  Cardinale  gliel’ha  inopinatamente  offerto.  Qualche  duro
          sarcasmo, e Wolsey è finito per sempre.
          Due scene innanzi troviamo Enrico intento alla solita partita con Suffolk: per
          una volta è lui a perdere, distratto dal pensiero dell’infelice Caterina (unico

          accenno  a  un  perdurante  rimorso)  e  preoccupato  per  la  sorte  di  Cranmer.
          Cosciente della posta in gioco e dei retroscena del caso, ha sufficiente senso
          dello Stato da dar corso al giudizio, non senza aver impartito al sant’uomo
          una  bella  lezione  di  realismo  politico.  Ma  sul  più  bello  interviene,  «con

          minaccioso  cipiglio»  −  come  da  didascalia  −  ed  è  la  vittoria  della  vera
          giustizia  sul  formalismo  legale:  poche  brucianti  battute,  e  a  Gardiner  e
          compagni  non  resta  che  fare  buon  viso  a  cattivo  gioco.  L’Inghilterra  volta
          pagina, e il Re invita tutti al battesimo della neonata «leggiadra bimbetta».

          Ed è così, nel ruolo di padre felice e sollecito sposo, che si congeda da noi. E
          se egli sente di avere attinto ad un’autentica pienezza di vita, lo spettatore lo
          vede  attingere  alla  più  piena  maturità  di  sovrano.  E  il  sospirato  erede
          maschio? La delusione non sembra averlo sfiorato. Non si può aver tutto a

          questo mondo: un’Elisabetta basta e avanza, e a chi non sa stare al gioco va
          ricordato che il teatro è illusione.
          Si è cercato di mostrare che il Re è saldamente al centro del dramma: attore,
          spettatore, controllore degli eventi. Un protagonista che per sano buonsenso

          e gusto della vita ha facilmente ragione dei propri conflitti interiori, ponendosi
          così al di fuori della dimensione tragica. Questa è invece sostenuta dall’ex-
          Regina  e  dai  due  “angeli  caduti”,  Buckingham  e  Wolsey.  Essenza  della
          tragedia è un elemento di contraddizione insanabile, un intreccio di bene e

          male che può risolversi con un taglio brutale o un movimento catartico, ma
          resta in parte, comunque, irrisolto. Di tragico, nella caduta dei tre personaggi,
          c’è la comune esperienza del fallimento della giustizia: quella degli uomini è
          fallace,  tardiva,  parziale,  quella  del  Fato  cieca,  sovente  crudele,  così  da

          apparire  insensata.  Esiste  un’unica  giustizia,  quella  riparatrice  di  Dio,  a  cui
          fanno appello le vittime a conclusione della loro vicenda terrena.
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