Page 1461 - Shakespeare - Vol. 4
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l’adulazione  di  rito  al  monarca  regnante,  rimane  una  delle  rare  allocuzioni
          scopertamente patriottiche del teatro di Shakespeare, insieme agli appelli del
          Bastardo  in Re  Giovanni,  al  lamento  di  Ghent  morente  in Riccardo II,  al
          discorso del giorno di San Crispino in Enrico V. Di queste non ha la veemenza

          e la felicità verbale, ma vi sopravvive l’idea dell’Inghilterra come isola felice,
          e della pace come bene supremo. E poiché l’Epilogo (a differenza di quello di
          Enrico V) non accenna a ironie o vendette della Storia negli anni a venire, lo
          spettatore  è  libero  di  dimenticare  che  a  pochi  anni  da  sì  gran  lieto  fine  i

          vincitori di oggi − Anna, Cromwell e Cranmer, per tacer degli altri − finiran
          tutti, a turno, sul patibolo.
          Anna Bolena è poco più di «una presenza inquietante» − come la definisce il
          Melchiori.  Il  che  significa  già  molto.  Appare  per  pochi  istanti  alla  festa  del

          Cardinale:  si  lascia  corteggiare,  amabile  ma  contegnosa,  dal  vecchio  Lord
          Sands, danza col Re senza dire parola. Più avanti, si esprime con caldi accenti
          di  pietà  nei  confronti  della  Regina;  replica  con  modestia  e  riserbo  (o
          compunzione)  alle  provocazioni  della  Dama  attempata  e  al  messaggio  del

          Ciambellano che segna l’inizio della sua ascesa. Ricompare, presenza muta,
          nel corteo che l’incorona Regina, tra l’entusiasmo della plebe e l’ammirazione
          dei Gentiluomini (che sono pur sempre dei cortigiani): e − commenta A.R.
          Humphreys − «si sostituisce alla sua amata Regina senza fare una piega».

          Non ha senso dire, con Wilson Knight, che ella è «riservata e modesta, dotata
          di senso dell’onore, piena di comprensione per Caterina e riluttante a salire di
          rango» − a meno di confondere l’essere col sembrare. Di sicuro non c’è che la
          sua bellezza, quella che fa dire a uno dei Gentiluomini: «Non so dar torto alla

          coscienza  del  Re».  La  personalità  di  Anna  è,  quanto  meno,  elusiva.  Certo,
          Shakespeare  non  può  permettersi  di  mancar  di  rispetto  alla  madre  di
          Elisabetta, e la critica solo per bocca di Wolsey: «Eccolo, il peso che mi ha
          tirato a fondo! [...] Tutte le mie glorie le ho perdute per sempre per quella

          sola donna». E Wolsey non si riferisce soltanto al capriccio di un Re: egli sa
          che Anna è un osso duro e − diversamente da Caterina − non gioca a carte
          scoperte.
          Tra i personaggi minori, si alternano in scena i grandi nobili della corte e i

          Gentiluomini,  con  la  funzione  strutturale  di  aggiornare  il  pubblico  sulle
          vicende  del  Palazzo:  gli  uni  nel  ruolo  di  protagonisti,  gli  altri  di  spettatori
          partecipi. Come si addice ai componenti di un coro, essi si somigliano tutti:
          presenze intercambiabili. I nemici di Wolsey si distinguono per animosità e

          rancore,  e  l’unico  ad  assumere  un  qualche  rilievo  individuale  ci  sembra
          Gardiner, in cui l’odio teologico prevale sui risentimenti personali. Negli altri
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