Page 1463 - Shakespeare - Vol. 4
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numero di rappresentazioni, fra tutte le opere del poeta di Stratford. I grandi
interpreti di successive generazioni (J.P. Kemble e Sarah Siddons nel 1816,
Charles ed Ellen Kean nel 1855, Henry Irving ed Ellen Terry nel 1892 − nei
ruoli antagonistici di Wolsey e Caterina) pongono al centro dell’attenzione la
figura del Cardinale, a detrimento di quella del Re. Il virtuosismo degli attori,
i grandi confronti melodrammatici − secondo la prassi dell’età − ignorano le
possibili ambiguità del testo, mentre si va sempre più accentuando il
naturalismo scenico, l’elaborata ricostruzione di ambienti e costumi, l’artificio
degli effetti speciali. Tale gusto scenografico, prevalente per tutto il secolo,
ha il suo canto del cigno in età edoardiana, nella regia di Herbert Beerbohm
Tree (1910) − con Wolsey ancora al centro della ribalta; al raffinato
naturalismo delle scenografie fa riscontro l’eliminazione di quasi metà del
testo.
Tra le due guerre si assiste al recupero della centralità di Enrico, alla drastica
riduzione di pageants e masques, e alla riscoperta del testo nella sua
interezza e problematicità. Controtendenza inaugurata da Wilson Knight
(1934) e confermata nel secondo dopoguerra da un memorabile allestimento
di Tyrone Guthrie (1949 − riproposto nel 1953 per l’incoronazione di
Elisabetta II). Altre regie confermano la vitalità scenica dell’Enrico VIII: quelle
di Michael Benthal (1958), di Trevor Nunn (1969), della BBC (1982: il miglior
dramma della Shakespeare Series); né mancano in anni recenti regie
innovative, sperimentali o dissacranti, come quella di Howard Davies (1983).
Quello che conta è il perdurante interesse dei valori intrinseci del testo e
delle potenzialità interpretative.
La fortuna critica dell’Enrico VIII è stata a lungo condizionata dalla querelle
sulla paternità dell’opera. Se ciò da un canto ha sviluppato e approfondito
l’analisi delle qualità stilistiche e linguistiche (a cui, occorre dirlo, fa difetto la
dimensione metaforica e immaginifica, la sensuosità che ci si attende da uno
Shakespeare), dall’altro ha finito con il dividere gli studiosi in due fazioni: da
una parte i “disgregatori”, con tutto uno spettro di posizioni intermedie (tra i
contemporanei, M. Nicholson, A.C. Partridge, R.A. Law, G.L. Kittredge,
Kenneth Muir, J.C. Maxwell, Clifford Leech, A.R. Humphreys); dall’altra i
“reintegratori” (tra cui Peter Alexander, G. Wilson Knight, Hardin Craig, R.A.
Foakes, Geoffrey Bullough, A.C. Sprague e i nostri Giorgio Melchiori e Gabriele
Baldini). Osserva quest’ultimo che «il miglior argomento per la difesa
dell’autenticità del dramma sembra possa trovarsi proprio nella sua
eccellenza come opera d’arte. E, forse, questa non è sempre stata proclamata
dai critici soltanto perché perplessi sull’attribuzione. Un circolo vizioso, come