Page 1448 - Shakespeare - Vol. 4
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I, si offre un ritratto di Caterina d’Aragona di nobiltà eccezionale (come era
già stato per Sir Thomas More nel dramma omonimo di tanti anni prima).
More, la vittima più illustre dell’arbitrio regale, è appena citato nell’Enrico VIII,
dove riceve l’encomio del suo maggiore rivale. La sua vicenda meritava un
dramma a sé stante, ma esso, in quanto opera scritta a più mani (come del
resto un’altra “cronaca” degli anni Novanta, l’Edoardo III) rimase escluso dal
tradizionale canone shakespeariano − stabilito dall’in-folio del 1623 − dove
l’Enrico VIII figura invece a pieno titolo. Eppure c’è motivo di ritenere che
anche la stesura di quest’opera sia frutto di collaborazione, e su questo
problema si è esercitato per decenni l’acume degli studiosi.
La paternità del dramma cominciò ad essere messa in discussione verso la
metà dell’Ottocento: in seguito a un’intuizione di Tennyson, ripresa
separatamente da due studiosi − James Spedding e Samuel Hickson − si
pervenne alla conclusione (1850) che Shakespeare si fosse avvalso di almeno
un collaboratore, identificato in John Fletcher, fortunato autore di commedie
melodrammatiche, spesso scritte a due mani (famosa la sua partnership
letteraria con John Beaumont). Fletcher, d’altronde, aveva già lavorato con
Shakespeare a The Two Noble Kinsmen (I due nobili cugini) nello stesso
periodo, e proprio per questo tale commedia non figura nell’in-folio. L’ipotesi
di una collaborazione si basa esclusivamente su indizi, in questo caso
peculiarità stilistiche: nel dramma coesistono la sintassi originale e vigorosa
di Shakespeare, coi suoi chiaroscuri e un uso personale e a tratti immaginifico
(anche se meno che altrove) del linguaggio, e lo stile piano, facile, discorsivo,
melodioso e senza sorprese del Fletcher. Si giunse a postulare, pertanto, una
divisione del lavoro per cui ciascun autore avrebbe lavorato a singole scene,
attribuendo a Shakespeare − nell’analisi di Spedding − soltanto un terzo del
testo a noi pervenuto.
Tali conclusioni ebbero un effetto dirompente su una generazione usa a
considerare le nobili orazioni di Enrico VIII − veri e propri set speeches,
autentici pezzi da antologia − come espressione di quell’alta moralità
shakespeariana a cui la “bardolatria” vittoriana teneva moltissimo. Donde
un’interminabile controversia fra studiosi, basata su criteri filologici (metrici,
prosodici, linguistici) ma anche su una valutazione globale del testo:
Spedding, per dirne una, vi leggeva l’assenza di una chiara impostazione
morale, mentre altri, in età successive (è il caso di Wilson Knight), vi
rintracciano una concezione unitaria e linee tematiche comuni ad altri drammi
del canone, del tutto assenti in Fletcher.
Un’ipotesi verosimile è quella che ritiene l’Enrico VIII un copione incompiuto al