Page 1447 - Shakespeare - Vol. 4
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della compagnia; ma Enrico, come già Edoardo Principe di Galles, era
scomparso prematuramente (nel 1612) e a maggior ragione la pièce
commemorava una speranza troncata dalla morte.
Per Shakespeare, riprendere la storia di Enrico VIII non era cosa difficile: con i
suoi cinquantasei anni di vita e trentotto di regno − un regno denso di
drammatici eventi epocali e di tragedie individuali − l’ombroso monarca
Tudor offriva al teatro grande ricchezza e varietà di trame. Inoltre,
Shakespeare aveva collaborato in passato a un robusto copione, quel Sir
Thomas More che solo di recente, ad opera di Giorgio Melchiori e Vittorio
Gabrieli, ha ricevuto l’attenzione che merita. Si trattava quindi di dar vita al
solito remake, e nel remake il poeta di Stratford non conosceva rivali: basti
pensare, per restare nell’ambito dei chronicle plays, al Riccardo III, al Re
Giovanni, alle due parti di Enrico IV, all’Enrico V: tutti innestati, come spunto
di partenza, su preesistenti drammi di successo. O al Riccardo II, che riprende
la storia là dove l’anonimo autore di Woodstock l’aveva lasciata, affiancando
a quella «prima parte» una «seconda parte» del regno del monarca deposto,
e andando ben oltre un mero criterio di complementarità.
La nuova opera intende fare giustizia delle grossolane libertà che Rowley si
era preso con trent’anni di storia inglese (concedendo per di più ampi spazi
alla farsa): All Is True (È tutto vero) è il polemico titolo originario, e fin dalle
prime battute il Prologo ammonisce che la storia è una cosa seria. Rispetto
all’opera concorrente, quella shakespeariana si limita agli eventi di sedici anni
del regno di Enrico VIII (1520-1536), comprimendoli in una vigorosa sintesi
teatrale. Sulla scia di Holinshed (che mai come in questo caso ha funzione
trainante) concentra l’attenzione su quella fase cruciale del regno (apertosi in
un clima di grandi speranze, andate poi rapidamente deluse) in cui si sorvola
sull’ingombrante presenza del Cardinal Wolsey e la sgradita ingerenza papale
mentre l’eresia protestante si avvia a diventare religione di Stato e
l’involuzione tirannica degli anni a venire sembra ancora lontana. Si può
quindi trattare Enrico VIII da “eroe positivo” senza far troppa violenza alla
verità storica: È tutto vero, ma dire la verità non equivale a dir tutta la verità,
né si potrebbe farlo senza correre rischi. Basti vedere con quale sorriso
enigmatico Shakespeare si accosta al personaggio di Anna Bolena: egli
giudica che non sia il momento di sottolineare (come aveva fatto, invece,
nell’Epilogo di Enrico V) le crudeli ironie della storia, di cui, nel caso del
sovrano Tudor, i contemporanei erano fin troppo coscienti. Dunque, si plaude
al trionfo di Cranmer e Cromwell − i grandi artefici della Riforma anglicana −
e ai non pochi nostalgici del cattolicesimo, dentro e fuori la corte di Giacomo