Page 13 - Shakespeare - Vol. 4
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delle storie che i romances mettono in scena, storie «deliberatamente e
deliziosamente improbabili», pur se in esse vengono trattate «emozioni
umane del tutto serie, come sofferenza, perdita e morte» (Mowat, p. 64), il
cui esito è però sempre quello di una rigenerazione finale, di «un ritorno ad
una felicità originaria» (p. 108). Una felicità che, se non poteva darsi
naturalmente nel conflitto tragico, risultava comunque circoscritta e per così
dire locale anche nelle commedie giovanili di Shakespeare. Qui, invece, il
panorama si allarga smisuratamente. Le storie attingono gli schemi vasti e i
motivi archetipici degli antichi romanzi greci «di avventure e di prove»
(secondo la definizione di Bachtin, 1979): come la passione, la separazione,
la fuga, il viaggio, la tempesta, l’assalto di pirati, la vendita in schiavitù, le
morti presunte, i travestimenti, e infine il riconoscimento o agnizione e il
matrimonio.
I rapporti umani, di conseguenza, si attestano su basi primarie; e fra tutti
campeggia quello tra padre e figlia. Lo spunto immaginativo fondamentale, in
questo senso, viene forse a Shakespeare dalla conclusione del Re Lear, come
io suggerii in un saggio su quel dramma (1978) e come ha più precisamente
proposto Melchiori nella sua Introduzione ai «Drammi romanzeschi» (1981):
«Direi che tutti i drammi romanzeschi nascono da una battuta di Lear nel
momento culminante della sua tragedia, dopo che, ricongiuntosi finalmente
con la figlia Cordelia, viene fatto prigioniero: “No, no, no, no; vieni,
andiamocene in prigione. Noi due soli canteremo come uccelli in gabbia [...] e
vivremo così, e pregando, e cantando, e raccontandoci antiche favole, e
ridendo delle farfalle variopinte; e sentiremo quei poveri furfanti parlare della
corte, e si discorrerà con loro, di chi perde e chi vince, di chi è dentro e chi è
fuori; e assumeremo su di noi il mistero delle cose come se fossimo spie degli
dèi”. I romances sono appunto le antiche favole che padre e figlia ritrovati si
racconteranno nella loro prigione terrena, divenendo così spie della divinità
intenta ad indagare il mistero delle cose». In effetti, già in questo esito di Re
Lear, la realtà, con le sue irrisolvibili contraddizioni e la pena del vivere, per
così dire in presa diretta, tutti i contrasti e i tumulti che la storia privata o
collettiva continuamente presenta, pare accantonata a favore di un progetto
di «vita raccontata», e quindi di un impegno di testimonianza quasi
oltremondana rispetto alla corrente bruciante della vita e della storia. È,
questa, un’altra implicazione di quella «narratività» che si attesta nel tessuto
stesso di questi drammi.
Ed è nel Pericle, appunto, che prende a campeggiare, del tutto primario, quel
rapporto padre-figlia che arriverà fino alla coppia Prospero-Miranda della