Page 10 - Shakespeare - Vol. 4
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Cinquecento: in particolare con i romances in prosa di Robert Greene − come
i l Pandosto, che doveva costituire una delle fonti principali del romance
shakespeariano Il racconto d’inverno − o come l’Arcadia di Sidney e la stessa
Faerie Queene di Spenser. In quegli anni, si affacciavano poi sulla scena
teatrale nuovi autori, come Beaumont e Fletcher, capaci di coniugare il
tragico con il comico, il serio con il fiabesco, incontrando, e formando allo
stesso tempo i gusti di un pubblico più raffinato e forse più fatuo.
Fu allora che si affermò, tra l’altro, alla corte di Giacomo I la voga di quel
nuovo genere proto-operistico che era il masque, dove la parola si mescolava
alla danza, alla musica, a mascheramenti pastorali e mitologici, nonché a
complesse macchinerie sceniche. E, sempre in quegli anni, si verificava anche
un ampliamento degli spazi scenici, con l’acquisizione di nuovi teatri al
coperto, come quello di Blackfriars rilevato nel 1609 dalla stessa compagnia
di Shakespeare; e lo spazio chiuso incentivava una drammaturgia più
sofisticata, più cameristica, e più eclettica.
Shakespeare seguì, o forse anticipò, tale cambiamento di gusti, di
ambientazione scenica, di strutturazione drammaturgica. Ma la sua non fu
naturalmente un’operazione corriva, anche se Ben Jonson, impegnato sulla
strada della nuova commedia realistica e di costume e irritato dal fallimento
della sua opera The New Inn, doveva bollare, nella Ode to Himselfe, proprio il
Pericle, come una «mouldy tale» («una storia stantia, ammuffita»), nonché
liquidare, nella «Induction» a Bartholomew Fair, anche gli altri romances
shakespeariani − e in particolare Il racconto d’inverno e La tempesta − come
«tales, tempests, and such-like drolleries» («racconti, tempeste e altre
stramberie, buffonate, del genere!). Per Shakespeare, la fase che si inaugura
appunto con il Pericle ha una fortissima motivazione interna, con temi,
simboli e strutture immaginative assolutamente coerenti, e costituisce inoltre
un naturale sviluppo della sua arte, o, per dirla con Frye, «l’esito della
crescita costante del [suo] interesse tecnico per la struttura del dramma» (p.
8). A partire dal primo romance, egli tende infatti verso l’arcaico, il primitivo,
l’essenziale, l’archetipico. E, sempre nelle parole di Frye, «si ritrae da tutto ciò
che è localizzato o circostanziato nel dramma del tempo e lavora per scoprire
una struttura drammatica primeva» (p. 58).
È un fatto che tutti i suoi romances sanno di mito, di leggenda, di fiaba. Ma
l’andamento rituale e simbolico si coniuga anche, in tutti questi drammi, con
un’acutissima percezione della finzione teatrale, dei suoi meccanismi, e
soprattutto dei procedimenti relativi alla illusione come alla distanziazione
della illusione stessa. È teatro che, allo stesso tempo, si costruisce come