Page 11 - Shakespeare - Vol. 4
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paradigma  della  favola  umana  e  poi,  a  più  riprese,  si  svela  nei  costituenti
          ultimi che tengono insieme, precariamente, tutte le fila di quella favola. Lo
          sguardo  neoplatonico  di  Shakespeare  tesse  la  tela  del  mondo  e
          contemporaneamente  ne  svela  l’illusoria  tramatura.  Si  comprende  allora

          perché  una  nuova  intenzione narrativa entri  nel  suo  spazio  drammatico-
          teatrale, a declinare la rete dei rapporti antropologici primari, a esporre e a
          sublimare le passioni elementari, a scandire gli sviluppi di storie «mitiche»,
          avvicinando e allontanando la «verità» della scena e quindi il senso stesso

          delle cose, come esse sono e come vengono rappresentate.
          Soltanto       la musica,  costantemente  convocata  come  motivo  portante,
          misterioso,  simbolico,  magico,  suono  che  è  più  che  fonazione  della  parola,
          può  riempire  i  vuoti  delle  storie,  distendendosi  dovunque  come  un  ritmo

          irriducibile  al  senso  eppure  capace  di  dar  conto  di  tutte  le  oscure  −  ma
          comuni, ripetute, eterne! − contraddizioni degli uomini, dei loro rapporti, e
          delle  vicende  che  essi  agiscono  e  subiscono.  La  musica  ha  un  ruolo
          assolutamente  determinante  nel  tessuto  segreto  dei romances,  a  partire

          proprio  dal Pericle e  fino  a  diventare  un  vero  e  proprio  leitmotiv,  sia
          metaforico che funzionale, nella Tempesta. Avvolta dalla musica si presenta
          come  un  frutto  proibito,  nella  prima  scena,  la  figlia  di  Antioco,  che  verrà
          presto paragonata da Pericle, il quale ha afferrato l’enigma dell’incesto, a una

          bella viola suonata fuori tempo e pertanto stridente nei suoi suoni. Musica
          legittima, e quindi festosa, accompagna invece le danze a Pentapoli in II, iii. E
          poi,  in III,  ii,  è  tramite  la  magia  della  musica  che  Cerimone,  il  re-mago  di
          Efeso, fa rivivere la morta Taisa abbandonata in mare dentro a una cassa da

          Pericle. Infine, è con il canto che Marina, in V, i, cerca di risvegliare Pericle,
          non  ancora  riconosciuto  come  padre,  dal  suo  allucinato  torpore;  e  quando
          quest’ultimo la riconosce come figlia − in una celebre agnizione considerata
          da T.S. Eliot come «un esempio supremo dell’ultra drammatico [...] azione

          drammatica di esseri che sono più che umani» − i suoi orecchi sono colpiti
          dalla stessa musica delle sfere che egli soltanto riesce a percepire.
          Alla  musica  in  quanto summa espressiva  fa  riscontro  il  mare  come
          equivalente simbolico di pervasività e agenzialità occulta, anch’essa magica,

          il mare che ritma gran parte delle svolte narrative del Pericle e che costituirà
          la grande metafora inglobante della Tempesta. «Il mare», annota Marenco in
          una bella introduzione a questa opera (1982), «è onnipresente nel dramma,
          fino a diventare il simbolo e il motore centrale della sua estrema mobilità». È

          simbolo  doppio,  di  vita  e  di  morte,  di  fortuna  e  di  sfortuna,  immenso
          palcoscenico dell’infinito girovagare di Pericle, della moglie Taisa, della figlia
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