Page 16 - Shakespeare - Vol. 4
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del  secondo  atto,  «come  si  deve  stare,  finché  egli  non  passi  le  sue  prove
          amare.  Vi  mostrerò  che  chi  negli  affanni  regna,  perdendo  un  granello,
          guadagna una montagna». Fra tutti i romances, questo primo è quello che si
          colloca  più  lontano  nei  tempi  passati,  in  un  mondo  che  sta  tra  l’Odissea  e

          l’Eneide,  un  mondo  di  prove  dell’eroe.  Prove  che  non  sono  mai,  in  questo
          caso,  battaglie  o  conquiste,  ma,  piuttosto,  confronti  con  bisogni,  desideri,
          ostacoli  primari:  con  il  sesso  proibito  (l’incesto),  con  la  carestia,  con  la
          tempesta,  con  la  morte.  Pericle  è  l’eroe  positivo  che  sa  accettare  tutte  le

          prove nel suo grande girovagare per il mare.
          Come  si  vede,  il Pericle,  sia  per  le  sue  fonti  sia  per  la  disposizione
          «romanzesca» dell’ultimo Shakespeare, si presenta come esito immaginativo
          ed espositivo di una lunghissima, millenaria tradizione. Da quella attinge la

          levità del mito, i motivi elementari, la struttura arcaica-primitiva che sonda la
          materia  elementare  dell’uomo,  articolandone  in  sequenze  esemplari  le
          tensioni e i sistemi più profondi: i rapporti più stretti di parentela, i connessi
          tabù (primario quello dell’incesto), i sentimenti più nudi della bontà e della

          ostilità,  dell’amore  e  dell’odio,  della  carità  e  dell’invidia,  nonché  i  tragitti
          iniziatici  della  prova  e  del  riscatto,  della  alienazione  e  della  rigenerazione.
          Tutto  è,  volutamente,  elementare,  come  lo  sono  i  miti  e  le  leggende,  che
          convogliano, in narrazione simbolica, la storia dei bisogni primari, dei desideri

          fondamentali (positivi o negativi), e delle tappe irreversibili della vita umana.
          Malgrado la redazione corrotta in cui ci è giunto, il Pericle è romance puro, e
          di  grande  suggestione  −  come  è  stato  provato  dalla  fortuna  teatrale  che
          conobbe nel primo Seicento e che ha incontrato nuovamente in recenti messe

          in scena − proprio perché si propone come un «antico canto». Ma è anche,
          inevitabilmente,  una  riedizione  «moderna»  di  una  favola  antica,  come  il
          drammaturgo sa assai bene, se fin dal primo intervento introduttivo di Gower
          suggerisce agli spettatori il modo in cui devono disporsi di fronte a una storia

          apparentemente  desueta:  «Se  voi,  nati  in  questi  tardi  tempi di  più  maturo
          ingegno, accettate le mie rime...». Shakespeare mima la materia e la forma
          antica,  mettendo  in  scena  lo  stesso  Gower  come auctor e  come  narratore-
          regista,  usa  locuzioni  arcaiche,  immette  metri  desueti,  insomma  allestisce

          uno spettacolo che il «più maturo ingegno» potrebbe rifiutare come primitivo.
          Del tutto consapevole di star compiendo una operazione arcaicizzante su una
          storia  del  tutto  improbabile,  intesse  la  sua  tela  di  una  fine  ironia,  affidata
          soprattutto  a  Gower,  che  scandisce  lo  scorrere  degli  eventi,  anticipa,

          commenta, narra, e soprattutto coniuga la struttura e la forma arcaica con il
          gioco sia metanarrativo che metadrammatico, monta e smonta il teatro e la
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