Page 15 - Shakespeare - Vol. 4
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Ne vedremo subito altri elementi, ma conviene qui soffermarsi un momento
          su  quel  testo  in  latino,  di  cui  circolavano  nell’alto  medioevo  molte  versioni
          manoscritte, la più antica delle quali risale al IX secolo. La storia era molto
          famosa  e  popolare  da  tempo,  visto  che  si  trovano  allusioni  a  essa  in  altre

          opere  di  diversi  secoli  più  addietro,  e  presenta  numerosi  grecismi,  oltre  a
          essere  chiaramente  strutturata  secondo  gli  schemi  e  i  motivi  classici  dei
          romanzi  greci  del II  e III  secolo.  Quel  testo  latino  era  dunque  quasi
          certamente una traduzione di un originale greco perduto, traduzione in alcuni

          punti mal condotta, come sembrano indicare alcune incongruenze e oscurità
          testuali. Fin dall’inizio, pertanto, il racconto di Apollonio, che diventa Pericle in
          Shakespeare, conosce una vicenda, che sarà millenaria, di corruzioni testuali.
          Nel  tardo  dodicesimo  secolo,  Goffredo  di  Viterbo  la  includerà  nel  suo

          Pantheon. E a quella versione si rifarà Gower nella Confessio Amantis.
          La sintagmatica degli eventi è dunque, originariamente, quella del romanzo
          greco,  dove  domina  il  tempo  del  caso,  che  è  un  «tempo  di  interferenza  di
          forze  irrazionali  nella  vita  umana»  (Bachtin,  p.  241):  destino,  fortuna,  dèi,

          forze occulte. E nel Pericle queste forze sono l’incesto iniziale di Antioco con
          la figlia, la tempesta che dirotta Pericle su Pentapoli, ancora la tempesta che
          fa  nascere  prematuramente  Marina  e  «uccide»  la  madre  Taisa,  il  mago
          Cerimone  che  con  l’aiuto  della  musica  fa  rinascere  Taisa,  l’intervento  della

          dea  Diana  che  comanda,  in  un  sogno,  a  Pericle  di  recarsi  a  Efeso  dove
          ritroverà la moglie, dopo che egli ha riabbracciato al largo di Mitilene, in sosta
          con la sua nave per un’altra coincidenza fortuita, la figlia Marina. È dunque
          alle  forze  irrazionali  e  non  ai  protagonisti  −  nel Pericle come  nei  romanzi

          greci  −  che  «appartiene  tutta  l’iniziativa  nel  tempo  d’avventura»:  «Agli
          uomini in questo tempo ogni cosa non fa che accadere: l’uomo d’avventura è
          l’uomo  del  caso»  (Bachtin,  p.  142).  E  la  sua  immagine  è  quella  di  uomo
          «passivo e immutabile»: tutto non fa che accadergli, e l’azione si riduce «a un

          movimento  forzato  nello  spazio  (fuga,  inseguimento,  ricerche),  cioè  al
          cambiamento  del  luogo  spaziale»  (p.  252).  La  struttura  processuale,  o
          processionale  per  dirla  con  Frye,  del Pericle obbedisce  a  questo  cronotopo
          antico, che non a caso, sempre secondo Bachtin, si trasferirà poi nel romanzo

          barocco, tra Cinque e Seicento. Pericle non fa che mutare luogo: da Antiochia
          a Tiro a Tarso a Pentapoli, di nuovo a Tarso e a Tiro, e infine a Mitilene e a
          Efeso. L’eroe del romanzo greco, e poi il Pericle shakespeariano, è sottoposto
          a  continue prove. Prove che non fanno che confermarne l’identità, e non la

          modificano  per  complicazioni  psicologiche  o  stravolgimenti  delle  passioni.
          «State attenti, dunque», dice Gower al pubblico nel suo intervento all’inizio
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