Page 7 - Shakespeare - Vol. 4
P. 7
procurata da Gosson nel 1609.
Con quella redazione dobbiamo dunque fare i conti. E, cioè, decidere quanto
di Shakespeare ci sia dentro, e come e perché un testo − che indubbiamente
lascia trasparire un grande valore di impianto drammatico, e che segna al
contempo l’inizio dell’ultima fase creativa di Shakespeare, quella dei
romances, e cioè del Racconto d’inverno, del Cimbelino e infine della
Tempesta − abbia potuto subire una sorte così ingrata. Non è questa la sede
per entrare approfonditamente nelle complicate questioni filologiche che un
caso testuale di questo genere ha sollevato nei secoli, e soprattutto negli
ultimi quarant’anni. Basterà dar conto delle ipotesi più diffuse, premettendo
che nessuna di esse può essere accettata o scartata con assoluta certezza.
Sarà bene partire da un dato di sicura evidenza. Gli atti I e II del dramma
sono stampati complessivamente in modo corretto per quanto riguarda la
scansione metrica, e tuttavia risultano, in molti punti, pieni di difetti sintattici
e grammaticali, nonché lacunosi e confusi nella sequenzialità drammatica. Lo
stile tipico di Shakespeare emerge qua e là, ma spesso è offuscato e talvolta
quasi irriconoscibile. Gli atti III, IV e V sono invece riportati in maniera
approssimativa soprattutto sul piano metrico, abbondando di versi irregolari e
riportando in varie occasioni come prosa brani che appaiono scanditi
internamente secondo il canonico blank verse shakespeariano. A tale
scorrettezza formale fa riscontro, però, una ben più autorevole, e
riconoscibile, sapienza drammaturgica rispetto ai primi due atti,
apparentemente più regolari. Come spiegare queste stranezze testuali?
Le ipotesi più accreditate sono sostanzialmente tre. Quella di chi (soprattutto
K. Muir, 1949 e 1960) ne ha dedotto che Shakespeare avrebbe lavorato su un
dramma preesistente, un Ur-Pericles, limitandosi a pochi interventi nei primi
due atti e interessandosi poi in misura molto maggiore alla sua opera di
revisione a partire dal terzo atto, fino a riscrivere completamente intere
scene. È una tesi che non può essere smentita, ma che ha il suo punto debole
soprattutto nel fatto che non spiega perché la forma sia rimasta regolare, ma
con contenuti confusi, nei primi due atti, e si sia poi rivelata così
approssimativa, ma con esiti drammatici di grande pregnanza, negli ultimi
tre.
La seconda ipotesi è quella di chi ha cercato la chiave del problema in una
collaborazione di Shakespeare con un altro drammaturgo o con più di un
altro. E sono stati fatti i nomi di Rowley (da parte di S. Lee, 1904), di
Heywood (da parte di H.D. Gray, 1925), dello stesso Wilkins, l’autore del
romanzo di cui si è già parlato (in una controversa ipotesi a più voci), e, più