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soprattutto in III, i), chiare somiglianze con altri testi emergono
distintamente, a mio parere, anche nei primi due atti: ad esempio, la sintassi
obliqua del re Antioco in I, i, 111-16 ricalca lo stile del re Claudio in Amleto, I,
ii, 1-7, così come l’inquietudine, sempre di Antioco, in I, i, 170-71, che potrà
placarsi solo con la morte di Pericle, ricorda l’analoga ossessione di Claudio
riguardo ad Amleto; e il monologo iniziale di Pericle in I, ii esprime il
turbamento dell’eroe sia a livello privato che politico, con un accavallarsi di
riflessioni e di emozioni, in modo simile al monologo iniziale di Bruto in Giulio
Cesare, II, i. Segni della mano di Shakespeare possono trovarsi, inoltre, in
tipiche compressioni metaforiche, come quella di I, iv, 8-9, o in sviluppi
immaginativi in cui si cifrano visioni del mondo di rilievo sia cosmologico che
politico, come nell’«a parte» di Pericle in II, iii, 37-47. E, soprattutto, la
finezza degli interventi di Gower, all’inizio sia del primo che del secondo atto,
sembra portare la firma di Shakespeare: un drammaturgo minore
difficilmente avrebbe saputo fare tanto.
Inoltre il Pericle costituisce un anello assai importante nello sviluppo
drammaturgico di Shakespeare, e sembra pertanto del tutto improbabile che
esso potesse essere ideato in collaborazione con qualcun altro. Come
suggerisce Northrop Frye (1965), «la svolta verso il romance nell’ultima fase
di Shakespeare rappresenta un autentico momento culminante, [...] una
evoluzione logica» nel suo lavoro (p. 7). Poiché il romance è di sua natura
tutt’altro che realistico, esso tende come genere a riflettere soprattutto sulle
proprie convenzioni, e quindi sulle radici mitiche, archetipiche, arcaiche che
ancora articolano, a partire dal più lontano passato, quelle convenzioni. Il
romance raccoglie spunti, schemi, motivi da una tradizione narrativa antica,
risalente addirittura all’Odissea e poi ai cosiddetti romanzi erotici greci, che
proprio nell’ultimo scorcio del Cinquecento conobbero nuova e grandissima
fortuna, in Inghilterra come sul continente. Basti pensare a Le Etiopiche di
Eliodoro (III secolo d. C.), che fu tradotto in inglese da Thomas Underdowne
nel 1569 circa, e poi riproposto con grande successo nel 1577, 1587, 1605,
1606 ecc., o a Clitofonte e Leucippe di Achille Tazio (sempre III secolo),
tradotto in inglese da W. B(urton) nel 1597, o all’ Asino d’oro di Apuleio (II
secolo), tradotto in inglese da W. Adlington sempre nel sedicesimo secolo.
Il romance, di per sé, obbediva alla richiesta dei tempi, e cioè della fine di
quel primo decennio del Seicento, quando il tardo Rinascimento inglese
cominciò a ripiegarsi, come suggerisce Edwards, sulla propria perduta
innocenza, e quindi sui testi romanzeschi, leggendari, allegorici che ne
avevano stabilito i principali parametri immaginativi nella seconda metà del