Page 9 - Shakespeare - Vol. 4
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soprattutto         in III,  i),  chiare  somiglianze  con  altri  testi  emergono
          distintamente, a mio parere, anche nei primi due atti: ad esempio, la sintassi
          obliqua del re Antioco in I, i, 111-16 ricalca lo stile del re Claudio in Amleto, I,
          ii, 1-7, così come l’inquietudine, sempre di Antioco, in I, i, 170-71, che potrà

          placarsi solo con la morte di Pericle, ricorda l’analoga ossessione di Claudio
          riguardo  ad  Amleto;  e  il  monologo  iniziale  di  Pericle  in I,  ii  esprime  il
          turbamento dell’eroe sia a livello privato che politico, con un accavallarsi di
          riflessioni e di emozioni, in modo simile al monologo iniziale di Bruto in Giulio

          Cesare,  II,  i.  Segni  della  mano  di  Shakespeare  possono  trovarsi,  inoltre,  in
          tipiche  compressioni  metaforiche,  come  quella  di I,  iv,  8-9,  o  in  sviluppi
          immaginativi in cui si cifrano visioni del mondo di rilievo sia cosmologico che
          politico,  come  nell’«a  parte»  di  Pericle  in II,  iii,  37-47.  E,  soprattutto,  la

          finezza degli interventi di Gower, all’inizio sia del primo che del secondo atto,
          sembra  portare  la  firma  di  Shakespeare:  un  drammaturgo  minore
          difficilmente avrebbe saputo fare tanto.
          Inoltre  il Pericle costituisce  un  anello  assai  importante  nello  sviluppo

          drammaturgico di Shakespeare, e sembra pertanto del tutto improbabile che
          esso  potesse  essere  ideato  in  collaborazione  con  qualcun  altro.  Come
          suggerisce Northrop Frye (1965), «la svolta verso il romance nell’ultima fase
          di  Shakespeare  rappresenta  un  autentico  momento  culminante,  [...]  una

          evoluzione logica» nel suo lavoro (p. 7). Poiché il romance è di sua natura
          tutt’altro che realistico, esso tende come genere a riflettere soprattutto sulle
          proprie convenzioni, e quindi sulle radici mitiche, archetipiche, arcaiche che
          ancora  articolano,  a  partire  dal  più  lontano  passato,  quelle  convenzioni.  Il

          romance raccoglie spunti, schemi, motivi da una tradizione narrativa antica,
          risalente addirittura all’Odissea e poi ai cosiddetti romanzi erotici greci, che
          proprio  nell’ultimo  scorcio  del  Cinquecento  conobbero  nuova  e  grandissima
          fortuna,  in  Inghilterra  come  sul  continente.  Basti  pensare  a Le  Etiopiche di

          Eliodoro (III secolo d. C.), che fu tradotto in inglese da Thomas Underdowne
          nel 1569 circa, e poi riproposto con grande successo nel 1577, 1587, 1605,
          1606  ecc.,  o  a Clitofonte  e  Leucippe di  Achille  Tazio  (sempre  III  secolo),

          tradotto in inglese da W. B(urton) nel 1597, o all’ Asino d’oro di Apuleio (II
          secolo), tradotto in inglese da W. Adlington sempre nel sedicesimo secolo.
          Il romance, di per sé, obbediva alla richiesta dei tempi, e cioè della fine di
          quel  primo  decennio  del  Seicento,  quando  il  tardo  Rinascimento  inglese
          cominciò  a  ripiegarsi,  come  suggerisce  Edwards,  sulla  propria  perduta

          innocenza,  e  quindi  sui  testi  romanzeschi,  leggendari,  allegorici  che  ne
          avevano stabilito i principali parametri immaginativi nella seconda metà del
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