Page 92 - Shakespeare - Vol. 3
P. 92

Monsignore.
                                                                Escono (Rosencrantz e Guildenstern).



              AMLETO
               Addio, addio a voi. Ora sono solo.
               Oh il furfante, il bifolco che sono!
               Non è mostruoso che quell’attore lì

               solo fingendo, sognando la sua passione
               possa forzare l’anima a un’immagine
               tanto da averne il viso tutto scolorato,

               le lacrime agli occhi, la pazzia nell’aspetto,
               la voce rotta, e ogni funzione tesa
               a dare forma a un’idea? E tutto ciò per niente!
               Per Ecuba!
               Ma chi è Ecuba per lui, o lui per Ecuba

               da piangere per lei? E che farebbe
               se avesse il motivo e lo sprone della sofferenza
               che ho io? Inonderebbe la scena di lacrime,

               spaccherebbe gli orecchi a tutti con parole
               tremende, farebbe impazzire i colpevoli,
               tremare gli innocenti, sbalordirebbe
               chi non sa niente, davvero, sconvolgerebbe
               le stesse funzioni degli occhi e degli orecchi.

               Ed io
               canaglia fatta di pietra e di fango
               sto qui a perdere tempo

               come un qualsiasi grullo trasognato
               e non penso alla mia causa, e non so dire
               niente, niente, nemmeno per un re
               che ebbe distrutti da un diavolo
               gli averi e la vita preziosa. Dunque

               sono un vile? Chi mi chiama furfante?
               Chi mi spacca il cranio? Chi mi strappa la barba
               e me la butta in faccia, chi mi tira il naso

               e mi sbugiarda, e mi caccia l’accusa in gola
               fino ai polmoni? Chi mi fa questo?
               Ah sangue di Dio!
               Dovrei incassare tutto, perché è vero,
   87   88   89   90   91   92   93   94   95   96   97