Page 1595 - Shakespeare - Vol. 3
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riproduce, con la sua stessa continua mescolanza di tragico e comico, quelle
contraddizioni e ironie della realtà che hanno dato origine al teatro
dell’assurdo. Sì che non meraviglia che Ian Kott abbia interpretato il Re Lear
in chiave beckettiana, genialmente suggerendo un’affinità con Finale di
Partita. Né che lo stesso Beckett e altri drammaturghi del Novecento abbiano
trovato nel dramma le “fonti” di molte loro situazioni, o che molti registi
vedano in Shakespeare lo Shakespeare nostro contemporaneo che campeggia
nel libro famoso di Kott.
E tuttavia, notato tutto ciò, io non credo che Shakespeare sia nostro
“contemporaneo” in questo senso specifico (ché, in un senso più generale,
tutta l’arte è sempre contemporanea) e che il suo mondo si possa identificare
con quello di Beckett o di altri autori novecenteschi. Credo, anzi, che noi
possiamo veramente capire il Re Lear, e renderlo quindi veramente parte
della nostra esperienza, solo rendendoci conto delle ragioni per cui esso è,
appunto, profondamente diverso. Pensando, così, al Lear di Strehler, esso è
ammirevole proprio perché, mentre ha colto tutte le affinità col nostro tempo
di cui s’è detto, ha individuato la vera natura dell’opera, e cioè la visione
dell’uomo che la sottende e sostanzia. Calandosi nel testo e tutto
“esplorandolo”, per usare le sue parole, penetrandone ogni aspetto (verbale
e gestuale, scenico e visivo, reale e simbolico) e in tal modo cogliendone la
totalità espressiva, Strehler ha pienamente compreso che se in Re Lear c’è
una discesa all’inferno c’è anche una faticosa risalita verso la luce, verso un
destino che, come Strehler scrive, «l’uomo non può non dominare, dovesse
anch’egli passare ancor più addentro per il dolore, fisico e morale, subire il
trauma della pazzia...». Se c’è una desolazione e un’angoscia in cui l’uomo in
assoluto può riconoscere la propria, e l’uomo del nostro tempo (l’uomo del
primo Eliot, o di Beckett, o del Lear di Bond) un’immagine della propria
condizione, c’è anche il riconoscimento di alcuni fondamentali valori che
possono dare un senso, e una ragione, alla vita. «Esser maturi è tutto», dice
Edgar, e la maturità, la ripeness che Lear e Gloucester, Edgar e Kent e Albany
faticosamente conseguono è appunto la capacità di vivere e morire con la
consapevolezza che l’esistenza non è, malgrado tutto, il gioco capriccioso
degli dei di cui dice Gloucester, e nemmeno il «grande palcoscenico di pazzi»
evocato da Lear, ma un arduo, lento, doloroso e fin crudele cammino verso
una verità che tutto (e in primo luogo la parola) contribuisce a oscurare e
allontanare ma che pure esiste e può essere conquistata − come l’hanno
conquistata il Matto e Cordelia. Nel Re Lear, di fatto, è ancora possibile la
tragedia proprio perché al mondo dell’inesistente si può contrapporre quello,