Page 1594 - Shakespeare - Vol. 3
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come  Amleto  o  appunto  Lear.  E  tanto  più  accade  di  fronte  ad  opere  che
          appartengono, come Re Lear, a momenti storico-culturali in cui l’affinità non è
          generica  −  e  certo  gli  anni,  all’inizio  del  Seicento,  che  coincidono  in
          Inghilterra col regno di Giacomo I, rivelano un travaglio che Re Lear esprime

          con  situazioni  sceniche  in  cui  paiono  annunciati  alcuni  nodi  cruciali  della
          nostra  storia  o  della  stessa  nostra  quotidiana  vicenda.  Forse  il  tema  della
          ingratitudine  filiale  ci  colpisce  meno  di  quanto  avvenisse  nel  Sette  o
          Ottocento (che ne ha anzi fatto una sorta di gabbia psicologica che ha ridotto

          l’enorme  ricchezza  dell’opera)  ma  se  ne  individuiamo  l’espresso  e  implicito
          problema  generazionale,  il  rapporto  tra  padri  e  figli,  ecco  che  possiamo
          scorgervi una tensione particolarmente operante nella nostra società. Ciò che
          è ancora più vero del tema della violenza: in un secolo come il nostro, che ha

          visto  le  più  grandi  tragedie  collettive  della  storia,  come  non  riconoscere  le
          insidie che ancor oggi ci minacciano nei simboli di violenza che scandiscono il
          Re Lear? Non c’è tortura, qui, anche la più atroce, che non si sia riprodotta,
          ingigantita, a Buchenwald come nel Vietnam; non c’è sangue di innocenti in

          cui non sia dato di vedere quello che ha coperto e ancora copre il mondo, non
          c’è inganno che non sia stato praticato in misura ben più vasta. E ciò è vero
          del  tema  che  a  quello  della  violenza  è  strettamente  collegato:  il  tema  del
          potere.  Come  meravigliarsi  se  tanto  spesso  il Re  Lear,  come  altre  opere

          shakespeariane,  è  stato  interpretato  in  termini  di  lotta  −  feroce,  senza
          esclusione  di  colpi,  sanguinosa  −  per  la  conquista  e  il  mantenimento  del
          potere, se questa lotta, all’interno degli stati e nel mondo, è la cifra stessa
          del nostro tempo, che ha visto e vede da un lato un susseguirsi implacabile di

          dittature e dall’altro la spartizione del mondo tra le grandi potenze?
          Ma se la violenza e il potere sono i più evidenti tra i temi del Re Lear in cui
          sembrano  rispecchiarsi  le  situazioni  storiche  e  politiche  del  Novecento  (un
          rispecchiamento  che  trova  nel L e a r di  Edward  Bond  la  sua  estrema

          manifestazione),  non  c’è  invero  momento  o  aspetto  dell’opera  che  non  si
          presti ad una “lettura” in chiave di sentimenti, stati d’animo, situazioni morali
          propri della nostra storia. L’angoscia e la solitudine, la disperazione e la follia,
          il  senso  del  vuoto,  dell’illusorietà,  della  precarietà  della  vita:  tutto  ciò  che

          lacera la nostra coscienza, tutti i segni delle nostre contraddizioni e nevrosi e
          terrori,  tutti  i  lineamenti  di  quella  che  Auden  definiva  l’“età  dell’ansia”,
          trovano nel Re Lear − e si pensi alla tempesta o ai dialoghi tra il Re e il Matto
          − una drammatica, lancinante prefigurazione, tanto più efficace e dolorosa in

          quanto espressa in un linguaggio molto vicino a quello della drammaturgia
          contemporanea  (che  di  esso  certamente  si  è  avvalsa):  un  linguaggio  che
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