Page 1592 - Shakespeare - Vol. 3
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cosa,  nel Re  Lear tale dramma raggiunge una delle tappe decisive del suo
          percorso e il problema dei linguaggio diventa componente centrale dell’opera.
          «Noi  dobbiamo  accettare  il  peso  /  di  questo  tempo  triste.  Dire  ciò  che
          sentiamo  e  non  /  ciò  che  conviene  dire»,  afferma  Edgar  alla  fine  della

          tragedia. Ma per giungere a questa consapevolezza, a questa distinzione tra
          la parola “falsa” e la parola “vera”, occorreva passare attraverso la violenza e
          il dolore, la follia e la morte. Un tragico percorso, scandito da quello della
          parola, e ciò fin dall’inizio, che, infatti, con il discorso di Lear, è il tangibile

          segno della divaricazione. Nel momento in cui Lear separa il nome di re dalla
          sostanza in cui esso si invera, egli commette la colpa che determina la sua
          caduta. Il linguaggio, invece di illuminarlo, lo fa cieco, copre di opachi veli la
          realtà. L’incapacità a distinguere rende possibile l’inganno crudele che su di

          lui esercitano le figlie Regan e Goneril − così come, nell’intreccio secondario
          in cui la vicenda di Lear specularmente si riflette, Gloucester si fa ingannare
          dalle parole di Edmund, dalla falsa lettera che egli crede vera (e la sua cecità
          fisica sarà il simbolo della cecità morale, e linguistica, di Gloucester ma anche

          di  Lear).  E  vanamente  quanti  stanno  accanto  al  vecchio  Re  tentano  di
          restituirgli la luce, di fargli “leggere” il significato del mondo, fargli intendere
          le parole che davanti a lui vengono pronunciate. Non ci riesce Cordelia, che
          alla  parola  falsa  delle  sorelle  contrappone  un  “niente”  che  ha  la  forza,  la

          trasparenza  della  parola  vera.  Non  Kent,  che  lo  avverte  a  proprio  rischio
          dell’errore  fatale  che  sta  commettendo,  del  fatale  equivoco,  del  complotto
          verbale  che  lo  sta  soffocando  come  aveva  soffocato  Otello.  E  nemmeno  il
          Matto,  il  prodigioso fool di  questo  dramma,  la  cui  azione  è  un’azione  tutta

          linguistica, tesa a far recuperare al re (con la dissacrazione, l’ironia, la beffa, i
          giochi verbali) il senso vero della parola − a strappargli il velo dagli occhi, a
          rendere  limpida  la  sua  visione,  a  colmare  il  divario  che  la  sua  illusione  ha
          creato. Otello, Macbeth, non hanno questo sostegno − il loro è un conflitto

          solitario, e la solitudine è il dato più struggente della loro condizione. Lear
          non è solo ma lo diventa: malgrado i colpi che la realtà gli impartisce, rimane
          ciecamente fedele alla propria illusione, si chiude nel proprio linguaggio come
          Macbeth nel suo castello e ad esso consegna la sua sfida agli uomini, alla

          natura, agli dei. Una sfida cosmica la cui eccezionale qualità poetica, la cui
          tutta moderna tragicità, stanno proprio nel suo dar corpo alla tragedia della
          parola.  Come  Otello,  come  Macbeth,  Lear  assume  il  linguaggio  dell’eroe
          tragico, e anzi lo porta alla massima tensione, e a dimensioni gigantesche,

          titaniche  −  ma  proprio  queste  dimensioni  rendono  la  sua  “caduta”  più
          clamorosa, più memorabile, creando uno scarto persino ridicolo tra lui e la
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