Page 1597 - Shakespeare - Vol. 3
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la tempesta, lasciando rovine e sangue. Ma quei valori si scorgono, e vivono,
          tra le rovine, e alcuni personaggi li hanno riconosciuti e fatti propri, attraverso
          le proprie stesse colpe ed errori. Collocati in una struttura da morality play
          medioevale essi sono uomini moderni che hanno dovuto conquistare con le

          loro forze, senza mediazioni trascendenti, il senso del bene e del male, del
          vero e del falso. Il palcoscenico, alla fine, è coperto di cadaveri ma non c’è
          bisogno  di  Fortebraccio:  Edgar  resta  sulla  scena,  accettando  il  proprio
          destino, la propria condizione di uomo moderno. Perché Edgar (come Malcolm

          nel Macbeth), estenuato dall’esperienza patita eppure fortificato da essa, è
          appunto l’uomo moderno, consapevole dei propri limiti e della propria fragilità
          ma anche della possibilità di affrontare la realtà e di agire su di essa. È il
          nuovo  principe  che,  reso  maturo  dal  dolore,  e  dalla  stessa  degradazione,

          potrà dare un qualche precario equilibrio al «mondo fuor di sesto».
          A me sembra, insomma, che rinunciando a vedere Re  Lear soltanto con gli
          occhi di Beckett e leggendolo invece con gli occhi di un poeta che, ai primi del
          Seicento,  indaga  sul  significato  della  vita,  e  dell’uomo,  noi  non  soltanto

          collochiamo l’opera nella sua giusta prospettiva ma possiamo percepirne la
          straordinaria  qualità:  che  sta  nell’essere,  a  un  tempo,  testimonianza  della
          nascita dell’uomo moderno e metafora assoluta, universale della condizione
          umana. Fare del Re Lear un’opera “contemporanea” significa invero non solo

          deformarla ma ridurla, attenuarne, come sempre avviene quando si elimina la
          “storicità”  di  un’opera  d’arte,  la  portata  universale.  E  tanto  più,  poi,  che
          questa “contemporaneità” è pur sempre settoriale, limitata, ridotta oltre che
          riduttiva. L’immagine dell’uomo che essa propone è parziale; quest’uomo non

          è  l’uomo  del  Novecento,  ma  è  il  borghese  quale  lo  rappresenta  il
          decadentismo. Con tutto il sangue e la violenza e la morte che caratterizzano
          il nostro tempo come il Re Lear, c’è pur sempre, nel Novecento, un uomo che
          da quel sangue e da quella violenza emerge così come Edgar emerge dalle

          rovine  del  mondo.  Ed  è  semmai  questa  immagine  dell’uomo  come  essere
          capace di superare la sofferenza, di pervenire alla consapevolezza, di crearsi
          un  destino,  di  non  essere  soltanto  vittima  della  storia  ma  di  modificarla  e
          crearla, che è più vicina a quella disegnata dal Re Lear.

          E lo conferma un ultimo aspetto del dramma che occorre porre in rilievo, e
          cioè il fatto che tra i “valori” qui riacquistati, o salvati, e consegnati al futuro
          c’è lo stesso teatro. La fiducia nel teatro era stata l’ultima a venir meno, tra
          le certezze crollate negli ultimi anni del Cinquecento e i primi del Seicento: se

          essa  resisteva  ancora  nel Giulio  Cesare e  in Amleto, le  “commedie  oscure”
          (Troilo  e  Cressida,  Tutto  è  bene,  Misura  per  Misura),  con  la  loro
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