Page 1593 - Shakespeare - Vol. 3
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realtà, rivelando che egli, come Don Chisciotte, è un eroe soltanto all’interno
          del suo linguaggio, della sua illusione. Non di forza i suoi discorsi impetuosi e
          ruggenti  sono  espressione  ma  di  impotenza,  inadeguatezza,  fragilità.  E  di
          fatto le sue parole non modificano il reale, quasi nemmeno lo sfiorano: esso

          rimane  immutato,  intoccato  −  la  tempesta  dilaga  e  contro  di  essa  le
          grandiloquenti parole di Lear nulla possono, rimangono meri, inconsulti suoni,
          preludio della follia da cui, come dalla tempesta, presto sarà aggredita. E le
          scene  della  follia,  appunto,  sono  anzitutto  una  rappresentazione  della

          distruzione  della  parola,  e  tanto  più  che  la  deflagrazione  del  linguaggio  di
          Lear  è  accompagnata  dai  discorsi  del  Matto  e  di  Edgar,  che  la  mimano,
          echeggiano, espandono, quasi a voler portare il gesto distruttivo al suo finale
          compimento. Prima ancora della morte della mente è la morte della parola (e

          ci si trova di fronte a un esempio quasi indicibile di arte teatrale, che solo
          Beckett  forse  saprà  evocare)  ad  essere  qui  messa  in  scena,  così  come
          avviene nell’Otello  e  nel Macbeth.  Ma  con  una  più  vasta,  davvero  cosmica
          ampiezza,  una  risonanza  che  la  presenza  degli  altri  personaggi  rende  più

          complessa e universale, sì che il frantumarsi di ogni disegno, di ogni progetto
          verbale,  diventa  un  ritorno  al  magma  originario  (così  come  Edgar,
          denudandosi,  era  tornato  alla  condizione  adamitica)  che  non  coinvolge
          soltanto  Lear  e  i  suoi  compagni  ma  l’umanità  tutta.  E  se  la  parola-fenice

          rinasce  dalle  sue  ceneri,  se  l’emergere  di  Lear  dalla  follia,  alla  conclusione
          dell’opera, è anche il suo riacquistare la parola vera, il suo imparare a leggere
          l’alfabeto  del  mondo,  e  comprendere  il  silenzio  −  e  dunque  il  linguaggio
          interiore, l’amore non detto − di Cordelia, questa comprensione coincide con

          la sua morte. Lear non potrà più valersi di tale conoscenza: non potrà, come
          vorrebbe, parlare con Cordelia («così vivremo / e pregheremo e canteremo e
          ci  racconteremo  /  antiche  storie,  e  rideremo  delle  farfalle  /  dorate,  e
          ascolteremo poveri malviventi / parlare delle novità della corte»). Cordelia è

          morta,  uccisa  dalla  parola  −  da  quella  di  Edmund,  che  ha  inviato  l’ordine
          fatale, ma prima ancora da quella di Lear. Il quale allora non può che morire
          a sua volta. La grande divaricazione, la grande frattura non può ricomporsi
          nel presente ma solo nel futuro, nel “mondo nuovo” di Edgar.

          Ma  un’altra  ragione,  oltre  che  la  centralità  del  problema  del  linguaggio,
          spinge  la  cultura  del  Novecento  −  la  cultura  di  anni  travagliati  e  ansiosi,
          crudeli e incerti − a rappresentare il Re Lear con tanta frequenza e con tanto
          impegno,  ed  è  il  riconoscimento  di  situazioni  e  problemi  affini  a  quelli  del

          nostro tempo. Ciò accade sempre, naturalmente, di fronte alle grandi opere
          d’arte,  specie  quando  i  loro  protagonisti  sono  diventati  miti,  come  Edipo,
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