Page 1591 - Shakespeare - Vol. 3
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della tragedia). La parola, cioè, pur altissima, e suggestiva, e “poetica”, è più
          che  mai  elemento  di  quel  più  vasto  tessuto,  fatto  di  parole  e  azione,
          movimenti scenici e recitazione che è l’immagine teatrale − il solo luogo in
          cui tutti i significati dell’opera trovano la loro forma compiuta. Sempre, certo,

          la parola di Shakespeare (e invero ogni parola teatrale) non è parola che si
          possa soltanto leggere: va recitata, detta da un attore con certi toni e gesti,
          in una precisa situazione drammatica, in un particolare momento dell’azione;
          ed  è  poi  parola  che  non  è  solo  battuta  di  un  dialogo  ma  strumento  che

          agisce,  evoca,  crea  una  scenografia,  stabilisce  rapporti  interni,  intesse
          relazioni segrete tra gli uomini e le cose, intensifica i significati dell’azione, li
          commenta,  li  amplia,  li  approfondisce;  rappresenta  il  reale  e  insieme  ne
          mostra la polivalenza, la ambiguità, crea una situazione e la rende simbolica.

          Ma tutto questo ancora di più avviene nel Re Lear, in cui Shakespeare crea
          veramente un linguaggio teatrale il cui segno precipuo è quello, vorrei dire, di
          una totalità espressiva ottenuta appunto attraverso il contemporaneo agire di
          tutti gli elementi che compongono il discorso teatrale e che sono sottoposti

          alla  massima  tensione.  Non  c’è  momento,  non  c’è  parola  del Re  Lear che
          possano  essere  avulsi  da  questa  totalità  −  non  c’è  parola  che  non  si
          “inteatri”, che non pretenda, pur nel pieno della sua intrinseca forza verbale,
          di essere calata nella realtà scenica − e si pensi, come ai massimi esempi di

          quel che peraltro avviene continuamente, alle scene della tempesta nel terzo
          atto;  o  a  quelle  della  finta  follia  di  Edgar,  o  della  follia  effettiva  di  Lear.
          Scene, tutte, che vivono proprio in quanto “teatro” e non letteratura.
          Si  può  già  comprendere  perché  il  Novecento,  e  cioè  un  secolo  le  cui

          espressioni  artistiche  (grazie  alle  avanguardie  letterarie  e  pittoriche,  al
          cinema,  alla  televisione)  sono  tutte  lontane  da  un’idea  di  imitazione  e
          verosimiglianza, abbia percepito le qualità non naturalistiche e simboliche del
          linguaggio  shakespeariano  assai  più  chiaramente  del  Settecento  e  dello

          stesso  Ottocento,  cui  pur  si  deve  la  riscoperta  di  Shakespeare,  calando  gli
          stessi  straordinari  personaggi,  lo  stesso  immenso  Lear,  nella totalità
          espressiva di quel teatro e riscoprendo così la “rappresentabilità” dell’opera.
          Ma ancor più, nel caso del Re Lear, tale congenialità è spiegabile se si pensa

          che,  come  in  tante  opere  del  Novecento,  il  linguaggio,  qui,  non  è  solo
          strumento  ma  oggetto  di  rappresentazione.  Se  in  tutto  il  teatro
          shakespeariano,  in  effetti,  al  dramma  dei  personaggi  s’intreccia  quello  del
          drammaturgo che, in un periodo di crisi quale è quello tra Cinque e Seicento,

          s’interroga  sulla  validità  stessa  delle  parole  che  usa,  percependo  e
          analizzando  e  tentando  di  sanare  la  frattura  verificatasi  tra  la  parola  e  la
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