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della tragedia). La parola, cioè, pur altissima, e suggestiva, e “poetica”, è più
che mai elemento di quel più vasto tessuto, fatto di parole e azione,
movimenti scenici e recitazione che è l’immagine teatrale − il solo luogo in
cui tutti i significati dell’opera trovano la loro forma compiuta. Sempre, certo,
la parola di Shakespeare (e invero ogni parola teatrale) non è parola che si
possa soltanto leggere: va recitata, detta da un attore con certi toni e gesti,
in una precisa situazione drammatica, in un particolare momento dell’azione;
ed è poi parola che non è solo battuta di un dialogo ma strumento che
agisce, evoca, crea una scenografia, stabilisce rapporti interni, intesse
relazioni segrete tra gli uomini e le cose, intensifica i significati dell’azione, li
commenta, li amplia, li approfondisce; rappresenta il reale e insieme ne
mostra la polivalenza, la ambiguità, crea una situazione e la rende simbolica.
Ma tutto questo ancora di più avviene nel Re Lear, in cui Shakespeare crea
veramente un linguaggio teatrale il cui segno precipuo è quello, vorrei dire, di
una totalità espressiva ottenuta appunto attraverso il contemporaneo agire di
tutti gli elementi che compongono il discorso teatrale e che sono sottoposti
alla massima tensione. Non c’è momento, non c’è parola del Re Lear che
possano essere avulsi da questa totalità − non c’è parola che non si
“inteatri”, che non pretenda, pur nel pieno della sua intrinseca forza verbale,
di essere calata nella realtà scenica − e si pensi, come ai massimi esempi di
quel che peraltro avviene continuamente, alle scene della tempesta nel terzo
atto; o a quelle della finta follia di Edgar, o della follia effettiva di Lear.
Scene, tutte, che vivono proprio in quanto “teatro” e non letteratura.
Si può già comprendere perché il Novecento, e cioè un secolo le cui
espressioni artistiche (grazie alle avanguardie letterarie e pittoriche, al
cinema, alla televisione) sono tutte lontane da un’idea di imitazione e
verosimiglianza, abbia percepito le qualità non naturalistiche e simboliche del
linguaggio shakespeariano assai più chiaramente del Settecento e dello
stesso Ottocento, cui pur si deve la riscoperta di Shakespeare, calando gli
stessi straordinari personaggi, lo stesso immenso Lear, nella totalità
espressiva di quel teatro e riscoprendo così la “rappresentabilità” dell’opera.
Ma ancor più, nel caso del Re Lear, tale congenialità è spiegabile se si pensa
che, come in tante opere del Novecento, il linguaggio, qui, non è solo
strumento ma oggetto di rappresentazione. Se in tutto il teatro
shakespeariano, in effetti, al dramma dei personaggi s’intreccia quello del
drammaturgo che, in un periodo di crisi quale è quello tra Cinque e Seicento,
s’interroga sulla validità stessa delle parole che usa, percependo e
analizzando e tentando di sanare la frattura verificatasi tra la parola e la