Page 1590 - Shakespeare - Vol. 3
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PREFAZIONE







          La  grande  fortuna  scenica  che  il Re  Lear ha  avuto  in  Europa  e  nel  mondo

          negli ultimi decenni costituisce la più evidente e decisa smentita del giudizio
          romantico  e  post-romantico  sulla  “irrappresentabilità”  dell’opera.  Alcune
          espressioni  di  tale  giudizio  sono  note:  da  quella  di  Charles  Lamb  che,  nel

          1811,  dichiarava  che  «è  fondamentalmente  impossibile  rappresentare Lear
          sulla  scena»  a  quella  di  Henry  James  che  nel  1883,  in  occasione  di  uno
          spettacolo di Tommaso Salvini, scriveva che «Re  Lear non è un dramma da
          recitare...  è  un  grande  e  terribile  poema  −  il  più  sublime,  forse,  di  tutti  i
          poemi  drammatici  ma  non  un  dramma»,  fino  a  quella  di  A.C.  Bradley,

          fondatore  della  moderna  critica  shakespeariana,  per  il  quale Re  Lear è  «il
          massimo  risultato  di  Shakespeare  ma  non  il  suo  miglior  dramma».  Ma
          evidentemente  non  era  così  se  abbiamo  visto  e  vediamo  quest’opera

          penetrare  profondamente,  proprio  in  quanto  “teatro”,  proprio  attraverso  il
          “teatro”, nella nostra cultura e, in effetti, nella nostra vita. E in realtà, lungi
          dall’essere  poco  teatrale, Re  Lear può  ben  dirsi  l’opera  più  teatrale  di
          Shakespeare,  e  ciò  nel  senso  che  in  essa  il  linguaggio  del  drammaturgo
          raggiunge  la  sua  più  alta,  e  specifica,  intensità  ed  espressività.  Né  poteva

          essere  diversamente.  Nel  dramma,  composto  intorno  al  1605  (poco  dopo
          l’Otello e  pressoché  contemporaneamente  al Macbeth)  e  dunque  nel
          momento  in  cui  più  profonda  era  la  sua  riflessione  sull’uomo  e  sulla  sua

          condizione,  Shakespeare  crea  un  linguaggio  la  cui  “teatralità”  è  suprema
          perché suprema è la funzione che ad esso viene affidata; un linguaggio che,
          volendo esplorare e conoscere il movimento e le ragioni della vita, ha così
          approfondito  e  arricchito  le  proprie  specifiche  risorse  e  qualità  da  aver
          bisogno, come mai prima, del proprio elemento naturale, il teatro. Ha detto

          Strehler in una intervista, a proposito del suo Lear del 1972: «È una tragedia
          che si “inteatra”. Tutte le cose del testo che ho capito, le ho capite giorno per
          giorno,  sulla  scena»;  e  parole  non  dissimili  aveva  usato  Peter  Brook

          commentando  il  suo  spettacolo  del  1962.  Ed  era  giusto  che  i  due  registi
          usassero  questi  termini,  perché  nel Re  Lear la  parola,  pur  caricandosi  di
          eccezionale  intensità  (basti  pensare  alla  risonanza  che  vi  hanno  certi
          monosillabi)  è  più  che  in  ogni  altra  opera  shakespeariana  legata  all’azione
          scenica  (si  provi,  del  resto,  ad  “antologizzarla”,  e  si  vedrà  che  si  potrebbe

          ribaltare il giudizio e parlare non di “irrappresentabilità” ma di “illeggibilità”
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