Page 827 - Shakespeare - Vol. 2
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serie di note.
          L’inganno  che  domina  il  mondo  di 2  Henry IV è anche, e forse soprattutto,
          autoinganno.  I  ribelli  rimproverano  il  loro  predecessore  Hotspur  di  essersi
          gettato a occhi chiusi nella rovina («and winking leaped into destruction», I,

          iii,  33).  Nel  momento  decisivo  essi  si  persuadono  a  vicenda  contro  ogni
          verosimiglianza che le promesse di pace del partito del Re sono sincere (IV, i,
          183-224),  e  parlano  addirittura,  senza  rendersi  conto  che  stanno
          pronunciando  la  propria  condanna,  dei  cento  occhi  di  Argo  che  possono

          essere «charmed asleep», persuasi, lusingati al sonno (IV, ii, 39). È uno dei
          tanti  casi  di  “ironia  drammatica”,  o  “ironia  tragica”,  caratteristici  del
          drammaturgo. Analogamente il Re inganna gli altri e forse se stesso parlando
          fin  dalla  sua  prima  battuta  (come  già  nella Parte I)  della  crociata  a

          Gerusalemme,  e  continuando  a  sostenere  che  la  sua  usurpazione  è  stata
          frutto della necessità, non di una sua precisa intenzione (III, i). E tuttavia il
          suo sonno è inquieto e oppresso, e sul letto di morte confesserà al figlio di
          avere raggiunto la corona passando per «bypaths and indirect crooked ways»

          (IV, v, 184), vie non proprio diritte, e anzi astute e disoneste. Ma come si è
          visto ciò non gli impedisce di consigliare al successore di valersi di strumenti
          analoghi.  La  giustificazione,  se  c’è,  è  la  grandezza  dell’Inghilterra:  non
          bisogna  dimenticare  l’efficacia  dell’appello  nazionalistico  per  il  pubblico

          inglese di allora (e magari anche oggi). Falstaff e compagni sono visti dal Re
          come un pericolo per l’Inghilterra (vedi l’anafora in IV, v, 128-129); il Principe
          si riscatta promettendo che «the great body of our state may go / In equal
          rank with the best-governed nation» (V, ii, 136-137). Non saremo secondi a

          nessuno,        dice.     Nondimeno          la     vita     di    Enrico IV  risulta  fondata
          sull’(auto)inganno,  che  in  questo  caso  non  riesce  a  lusingare  al  sonno  gli
          occhi di Argo. Solo in punto di morte egli scoprirà che la Gerusalemme in cui
          gli è stato predetto che morirà non è in Terrasanta ma a Londra, una stanza

          del  palazzo.  Degna  fine  del  politico,  del  «canker  Bolingbroke»  come  lo
          chiamava  Hotspur  (Parte I,  I,  iii,  176).  Che  tuttavia  sarebbe  un  errore
          giudicare moralisticamente, visto che il suo creatore si è guardato dal farlo.
          Come le notizie e la fama sono inaffidabili così lo sono le parole, ad esempio

          «in Gerusalemme». I loro utenti si devono accontentare di sperare che esse
          significhino  ciò  che  essi  vogliono,  ma  sono  spesso  delusi.  «Si  fortune  me
          tormente,  sperato  me  contento»  (II,  iv,  173)  è  un  motto  nell’italiano
          approssimativo dell’alfiere Pistol che vale per tutti i personaggi del dramma, e

          Pistol lo ripete quando esce di scena col grasso cavaliere per l’ultima volta. La
          speranza è dura a morire, anche se fin dal primo incontro dei ribelli sentiamo
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