Page 824 - Shakespeare - Vol. 2
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coeve o di poco successive all’Enrico IV).
          Questo rapporto abbastanza aperto fra i due drammi, e la memoria selettiva
          che  il  secondo  ha  del  primo,  non  deve  sorprendere  se  è  vero  che  il
          drammaturgo  non  costruisce  un  teorema  ma  lavora  con  impressioni  e

          sentimenti, decidendo volta per volta e inappellabilmente che cosa è “vero”,
          presente alla coscienza dei suoi personaggi e del suo pubblico.
          Gli  spettatori  della Parte II  avevano  probabilmente  visto  la Parte I,  ma  la
          continuazione non poteva fare affidamento su questo e dunque doveva anche

          riepilogare  gli  antefatti,  come  in  diverso  modo  fanno  il  Prologo  e  la  prima
          scena, che usa la tecnica dell’improvviso bagno di emotività e di retorica per
          assicurarsi  l’attenzione  degli  spettatori  sonnolenti  del  pomeriggio  (tecnica
          analoga  per  esempio  in Hamlet, con l’apparizione del fantasma), mentre la

          Parte I ha avvio meno sensazionale, più esposizione dei temi principali, e non
          a caso più breve: nella Parte I Falstaff fa il suo ingresso dopo 108 versi, nella
          II dopo 255 versi. È insomma passato del tempo fra Parte I e II, nell’universo
          reale del pubblico (sulla cui dimenticanza si può fare affidamento come sulla

          sua memoria), se non in quello fittizio del palcoscenico. La Parte I si colloca,
          per  lo  spettatore  della II,  fra  il  già  (vagamente)  noto.  Inoltre,  come  oggi
          sappiamo chi è Falstaff anche senza aver mai visto l’Enrico IV, così allora il
          pubblico  sapeva  della  gioventù  scapestrata  del  principe  Hal  e  del  suo

          rapporto privilegiato con un vecchio pocodibuono, chiamato Sir John Oldcastle
          finché Shakespeare non ne cambiò il cognome in Falstaff, quando Enrico IV
          era già scritto in tutto o in parte (come qui ricordato nell’Epilogo). Esisteva
          cioè una precedente versione teatrale della vicenda del Principe scioperato,

          dell’amicizia con Oldcastle, del conflitto e della riconciliazione con il Re e con
          il  Giudice,  della  gloriosa  successione  ed  eroica  vittoria  sui  francesi.  La
          conosciamo  in  una  versione  probabilmente  ridotta  intitolata  appunto The
          Famous  Victories  of  Henry V  (pubblicata  nel  1598  ma  andata  in  scena  un

          decennio  prima),  delle  cui  venti  scene  le  prime  nove  corrispondono  alla
          narrazione dell’Enrico IV. C’era insomma una materia di Enrico IV ed Enrico V,
          di pubblico dominio, all’interno della quale Shakespeare ha ritagliato i suoi tre
          drammi, ognuno con un carattere suo proprio. La giustapposizione della corte

          e della taverna con i loro rispettivi linguaggi era già implicita nel materiale
          (l’oscillazione  del  Principe)  e  consegnata  nel  dramma  o  nei  drammi
          antecedenti. Come al solito Shakespeare adottò una formula e una vicenda
          preesistente,  aggiungendovi  tutto  e  niente,  come  un  Rembrandt  o  un

          Tintoretto che rivisiti un episodio della Bibbia. Un niente piuttosto corposo, se
          pensiamo  a  Falstaff,  o  mingherlino  quasi  fosse  ritagliato  in  una  crosta  di
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