Page 516 - Shakespeare - Vol. 2
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riportarne alcune parole la cronaca di Holinshed: «Con questo essi, per mezzo
          di loro deputati nella casa dell’Arcidiacono di Bangor, divisero il regno fra sé,
          facendo  stendere  un  contratto  tripartito,  per  gli  articoli  del  quale  tutta
          l’Inghilterra dalla Severn alla Trent, a sud ed est, fu assegnata al Conte di

          March; tutto il Galles e tutte le terre oltre la Severn a ovest furono assegnate
          a Owen Glendower, e tutto il rimanente a nord della Trent, a Lord Percy» (cfr.
          III, i, 74-80).
          Ma  in  Shakespeare  (come  già  in  Daniel)  l’accordo  per  la  tripartizione  è

          preparato non da deputati bensì dai ribelli in prima persona, che così vediamo
          a  confronto  in  una  scena  corale  caratterizzata  dalla  molteplicità  degli
          atteggiamenti e delle lingue (c’è anche un brano in gallese). Come Falstaff
          nella  scena  parallelamente  corale  della  taverna,  Hotspur  è  qui  al  centro

          dell’attenzione,  a  confronto  via  via  con  Glendower  e  il  suo  linguaggio
          visionario,  lo  zio  con  i  suoi  avvertimenti  politici,  la  moglie  con  le  sue
          imprecazioni  troppo  (per  lui)  schizzinose  (ed  è  uno  scambio  spassoso:  non
          per nulla Shakespeare diede a Lady Percy il nome della Kate di The Taming

          of the Shrew). Hotspur è mostrato in tutta la sua contraddittorietà e litigiosità
          fine  a  se  stessa,  mero  gioco  come  l’umorismo  falstaffiano  (di  «umori»  egli
          parla esplicitamente in conclusione, come aveva fatto Hal in II, iv). Realistico
          nel  negare  i  prodigi  che  gli  racconta  Glendower,  egli  però  si  lancia  in  una

          descrizione  tutta  magica  del  terremoto  (III,  i,  27-33)  e  al  momento  della
          spartizione  litiga  come  un  bambino  che  gioca  a  Monopoli  perché  il  fiume
          Trent gli taglia via una fetta troppo grossa di terra, e annuncia che ne devierà
          il corso. Dove se si vuole si può vedere traccia dell’antica concezione della

          ribellione contro il Re come ribellione contro l’ordine della natura, ma diverte
          soprattutto il fatto che Hotspur rifiuti le fantasticherie del gallese pur essendo
          schiavo  di  fantasticherie  egualmente  irreali:  la  gloriosa  cavalleria.  (Anche
          l’immagine del terremoto e il tema ricorrente del dissidio e della babele −

          Mortimer  che  non  intende  il  gallese  della  moglie,  Hotspur  che  non  intende
          l’inglese  di  Kate  −  rientra  in  questo  retroterra  arcaico  di  immagini  di
          sconvolgimento dell’ordine. Per alcuni è anche significativo che Hotspur dica
          di non capire la musica: la ribellione come dissonanza.)

          Fin dalla prima battuta da lui pronunciata nel dramma (I, iii, 29-69) Hotspur è
          irritato  con  qualcuno,  il  signorotto  pappagallo  inviato  dal  Re  a  chiedere  la
          consegna  dei  prigionieri  scozzesi  di  Holmedon,  il  che  gli  permette  di
          esprimere  subito  il  suo  disprezzo  per  le  affettazioni  ed  effemminatezze,

          esibizione  di  virilità  che  ritornerà  nell’invito  alla  moglie  di  usare  delle
          imprecazioni belle tonde e lasciar perdere i “davvero”. Quando poi il discorso
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