Page 266 - Shakespeare - Vol. 2
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prevalentemente orientata a conservare questo difficile ma necessario
equilibrio. Così il Doge e i Magnifici non possono condannare Otello, il loro
campione militare, se ha sposato Desdemona senza nemmeno avvertire il
suo nobile padre Brabanzio, senatore della Repubblica; così lo stesso Doge e
gli stessi Magnifici non possono, in sede di giudizio, venire incontro allo
sfortunato Antonio, il «principe dei mercanti». Dovessero farlo, li ammonisce
Shylock, la legge e lo statuto di Venezia non varrebbero più: «... vergogna
sulla vostra legge! / Non hanno forza i decreti di Venezia» (IV, i, 101-102).
Porzia, travestita da avvocato, ribadirà questo punto essenziale su cui si
fonda la potenza della Repubblica: «... non c’è potere a Venezia / che possa
alterare una legge stabilita: / ciò costituirebbe un precedente, / e molti abusi,
dietro tale esempio, / irromperebbero nello stato» (IV, i, 216-220).
Il contratto di Venezia è la sua tolleranza, il suo riconoscimento dei diritti
altrui, pur limitati e confinati, come quelli degli ebrei costretti nel loro ghetto
(e si ricordi che la parola stessa ghetto deriva proprio dal veneziano gheto,
l’isoletta lagunare sulla quale erano stati segregati nel XVI secolo). Quella
tolleranza costituisce il patto del vantaggio capitalistico, è statutaria e quindi
formalmente infrangibile; ma si coniuga segretamente con la più spietata
intolleranza, più o meno dissimulata nel grande inganno, e autoinganno, della
nuova civiltà borghese. È questo il drammatico contratto storico nel cui
quadro va vista, a mio parere, la vicenda emblematica del contratto (bond)
tra il mercante Antonio e l’usuraio Shylock.
Lo scontro tra i due − i contraenti del «buffo» contratto, che è in realtà
contratto di morte a causa del loro reciproco odio − pare essere lo scontro tra
un buono e un cattivo, un generoso ed un avido spietato. Ma subito le cose si
complicano. Shylock cita testi biblici per giustificare il suo ingegnoso, e ai suoi
occhi legittimo, modo di cavar denaro dal denaro stesso. Porta l’esempio del
lucro che fece l’astuto Giacobbe alle spalle dello zio Labano; e quando
Antonio gli chiede: «Lui che c’entra? Prendeva interessi?», risponde con
grande sottigliezza: «No, non prendeva interessi, non interessi diretti, / come
direste voi» (I, iii, 73-75). Che è come dire: il mercante non vuol riconoscerlo,
ma anch’egli prende interessi, non direttamente sul denaro, bensì
accumulando e reinvestendo a suo piacere il profitto del suo capitale. Ma
Antonio non vuol capire e replica: «Fu inserito, questo, per giustificare
l’usura? / O è forse il vostro oro e argento pecore e montoni?». I metalli non
sono cose vive, non possono generare. Egli oppone cose vive, animali, e
quindi il mondo pastorale-agricolo (il mondo feudale, che dovrebbe essere poi
raffigurato da Belmonte) al mondo dell’interesse e del profitto mercantile-