Page 265 - Shakespeare - Vol. 2
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merce  in  se  stesso,  sterile  metallo  capace  di  «generare»,  nel  profitto
          capitalistico come  nell’usura.  Quest’ultima,  violentemente  condannata  nei
          millenni,  da  Aristotele  a  san  Tommaso,  veniva  ormai  nel  Cinquecento
          considerata  da  molti  (tra  cui  Lutero  e  Calvino)  come  un  male  inevitabile:

          male già istituzionalizzato nelle banche, ma ancora criminalizzato nelle figure
          dei reietti, dei senza patria come gli ebrei, particolarmente attivi a Venezia,
          come in altre parti d’Europa (ad esempio, Amsterdam) e nel Vicino Oriente,
          dopo la traumatica espulsione che avevano dovuto subìre dalla Spagna nel

          1492: proprio l’anno in cui veniva scoperto il nuovo mondo che avrebbe dato
          la più forte spinta d’accelerazione allo sviluppo capitalistico.
          L’assetto cosmopolita di Venezia, ad un tempo sua forza e suo inestinguibile
          nodo di conflitti, è messo in rilievo nel Mercante dallo stesso Antonio, quando

          ormai insolvente nei confronti di Shylock sa di rischiare veramente che vada
          in  atto  la  macabra  penale  prevista  dal  contratto  che  con  lui  aveva
          sottoscritto,  perché  nemmeno  il  Doge  ha  il  potere  di  alterare  l’equilibrio
          contrattuale che fa la fortuna della composita società veneziana: «Il doge non

          può impedire il corso della legge, / perché, se fossero negati i privilegi / che
          gli  stranieri  hanno  da  noi  a  Venezia,  /  ciò  screditerebbe  la  giustizia  dello
          stato, / dato che il commercio e il profitto della città / dipendono da tutte le
          nazioni»  (III,  iii,  26-31).  Le  varie  comunità,  come  annota  ancora  Auden,

          «devono tollerare l’esistenza l’una dell’altra perché sono tutte indispensabili
          al  corretto funzionamento  della  società,  e  tale tolleranza  è  imposta  dalle
          leggi dello stato veneziano» (corsivi miei).
          Venezia, come la Londra del tempo, è crocicchio di tutte le nazioni, pronta ad

          accogliere anche i mercanti di nazioni nemiche o di comunità mal tollerate. È
          un mondo radicalmente diverso da quello feudale e anche da quello nazionale
          primorinascimentale,  dove  gli  altri,  i  diversi,  i  cattivi,  erano  sempre  nemici
          lontani o comunque esterni (nemici potevano essere anche gli stessi fratelli,

          nelle guerre civili, ma allora non si dava scontro di lingue e di culture). È un
          mondo  in  cui,  naturalmente,  sussiste  il FUORI  nemico,  come  ad  esempio  il
          pericolo  turco  in Otello,  ma  il DENTRO  ha  comunque  accolto  in  sé  molto  del
          FUORI:  per  usarlo,  come  avviene  per  i  ricchi  ebrei  Shylock  e  Tubal  o  per  il

          valoroso        condottiero         moro        Otello      («Dobbiamo            immediatamente
          impiegarvi...», dice a quest’ultimo, senza mezzi termini, il Doge nella terza
          scena del primo atto).
          Il  grande contratto  di  Venezia,  e  della  nuova  epoca  di  cui  Venezia  è

          emblema,  sta  nella  convergenza  cosmopolita  di  tutte  le  forze  che  possono
          concorrere  alle  nuove  fortune  capitalistiche.  La  legge  di  Venezia  sembra
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