Page 263 - Shakespeare - Vol. 2
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di ser Giovanni Fiorentino (scritta nella seconda metà del Quattrocento, ma
          pubblicata nel 1558) e un racconto, il sessantaseesimo, della raccolta Gesta
          Romanorum compilata in Inghilterra nel XIV secolo da testi latini di svariata
          provenienza  e  tradotta  in  inglese  da  Richard  Robinson  nel  1577.  Questa

          seconda  fonte  non  fornì  a  Shakespeare  che  lo  spunto  per  la  scelta  dei  tre
          scrigni che egli inserì nel secondo intreccio, quello di Belmonte, già presente,
          pur con altre modalità, nella novella di ser Giovanni Fiorentino. Tale novella
          non  era  ancora  stata  tradotta  in  inglese  e  fu  quindi,  verosimilmente,

          consultata dal drammaturgo nell’originale italiano. Come in italiano dovette
          essere compulsata, qualche anno dopo, la fonte (una novella di Giraldi Cinzio)
          dell’altro grande dramma veneziano, Otello (1604).
          L’azione  si  svolge  tra  Venezia  e  Belmonte,  un  luogo  reale  e  un  luogo

          immaginario.  Essi  sono  contrapposti,  ma  il  vero  «fuoco»  dell’opera  resta
          Venezia,  anche  se  il  finale  sembra  segnalare  la  vittoria  dell’armonia,
          apparentemente senza tempo, del favoloso Belmonte. Volgiamoci dunque a
          indicare  cosa  poteva  significare  Venezia  agli  occhi  di  uno  scrittore  inglese

          della fine del Cinquecento.
          Pur  nel  suo  già  profilato  declino,  Venezia  rappresentava  ancora  in  tutta
          Europa la Repubblica Serenissima dalle grandi tradizioni, la porta occidentale
          dell’Oriente ricco, insidioso e favoloso, la splendida sede di una straordinaria

          opulenza e di una feconda cultura cosmopolita (italiana, ma anche tedesca,
          francese,  inglese,  fiamminga,  ebraica  e  orientale).  Luogo  elettivo,  dunque,
          della complessità, e delle tensioni, di una civiltà commerciale, mercantile, a
          suo  modo  imperiale.  Luogo  su  cui  era  impossibile  non  essere  informati:

          tramite i resoconti, anche orali, dei molti viaggiatori che soprattutto per affari
          ogni  anno  la  visitavano,  o  tramite  una  documentazione  più  dotta,  forse
          praticata anche su quegli stessi libri, classici e contemporanei, che uscivano
          dalle tante stamperie che la città ospitava. Luogo, inoltre, che per gli inglesi

          del  tempo,  e  cioè  della  prima  grande  epoca  di  espansione  coloniale  oltre
          Atlantico fortemente appoggiata dalla regina Elisabetta, diventava anche una
          immagine  trasposta  della  Londra  mercantile,  la  porta  dell’Occidente  che
          avrebbe rapidamente preso il posto, per importanza di scambi commerciali (e

          quindi  di  potere  politico  e  militare),  della  declinante  porta  dell’Oriente.  Si
          veda quanto annota C.L. Barber (1959): «... gli anni Novanta del Cinquecento
          furono un periodo in cui Londra andava prendendo coscienza di sé come città
          ricca e colta, e poteva considerare la grande Venezia commerciale come il

          suo prototipo».
          Ma  non  intendo  soffermarmi  oltre  su  queste  sommarie  indicazioni  d’ordine
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