Page 10 - Shakespeare - Vol. 2
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l’identificazione stessa tra re e nazione, il rispecchiamento tra il suo corpo e
          la  sua  terra,  che  si  manifestano  con  le  ripetute  sineddochi  di France  e
          England per indicare i rispettivi sovrani, morrà con Giovanni stesso, che nella
          sua malattia consumerà per sempre la sacra unione dei due corpi del re:



               I miei nobili mi abbandonano, la mia maestà è sfidata,
               davanti alle mie stesse porte, da potenze straniere:
               sì, nel corpo stesso di questa terra di carne,
               in questo regno, in questi confini di fiato e di sangue,
               regnano l’ostilità e la guerra civile
               tra la mia coscienza e la morte di mio nipote.
                                                                                                   (IV, ii, 243-248)


          L’uomo  «cristiano»  ha  lasciato  posto  all’uomo  «naturale»,  per  usare  la

          terminologia dei sermoni di John Donne, e il lungo monologo del Bastardo
          alla  fine  del  secondo  atto,  che  conclude  questo  primo  movimento  del
          dramma,  dà  una  prima  risposta  a  tutti  gli  interrogativi  sul  «diritto»,  sulla
          «legittimità»  e  sulla  «giustizia»,  sottraendo  queste  categorie  a  ogni  fissità

          trascendentale per fissarle alle necessità e ai bisogni dell’individuo nella sua
          materialità. Se si cita sempre il famoso discorso di Ulisse nel Troilo e Cressida
          come  la  grande  affermazione  nostalgica  ed  esemplare  di  un  ordine  che  si
          sente  ormai  perduto,  il  discorso  del  Bastardo  potrebbe  forse  valere  come

          l’affermazione dell’ordine nuovo. Là dove Ulisse vede «direzione, proporzione,
          tempo e forma», egli scorge un «mondo pazzo, pazzi re», e indica il principio
          di  questo  universo  nel  suo  deviare  «dalla  giusta  direzione,  da  ogni  retto
          proposito, corso, intento» (II, i, 580).

          Lungi dall’essere caratterizzato da equilibrio, stabilità e lealtà questo mondo
          nuovo è retto da una «forza motrice» (II, i, 577) unica, che trova la sua unità
          di misura solo nell’interesse, «questo ruffiano, questo mezzano, questa parola
          capace di mutare ogni cosa» (II, i, 582) che ha fondamento solo in se stesso,

          destituendo così di ogni legittimità qualsiasi morale:


               E perché sono io qui a imprecare contro questo Interesse,
               se non perché lui non mi ha ancora corteggiato?
               ...
               Sì, mentre sono un mendicante lancerò maledizioni
               e dirò che la ricchezza è l’unico peccato:
               da ricco, poi, cambierò virtù e andrò dicendo
               che non c’è vizio peggiore del chiedere la carità.
                                                                                                    (II, i, 587-596)


          La seconda grande unità drammatica è quella che inizia col terzo atto, con la
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