Page 13 - Shakespeare - Vol. 2
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dev’essere mantenuto con la stessa violenza
con cui lo si è guadagnato,
e chi si trova su un terreno scivoloso non si cura
della meschinità di ciò che lo sorregge:
se Giovanni deve reggersi, allora Arthur dovrà cadere.
(III, iv, 135-139).
Le immagini di fuoco e di calore che segneranno la fine di Giovanni,
quell’estate calda che gli brucia nel petto, cos’altro sarà se non il compiersi di
un ciclo iniziatosi con i ferri arroventati per accecare Arthur e continuato nel
divampare di quell’indignazione popolare − («Bruciano d’indignazione», IV, ii,
103; ma si veda anche V, i, 7) − che fa schierare i nobili contro il loro re?
Dolori, maledizioni, incertezze, dubbi.
Se il Re di Francia, stretto fra due opposti giuramenti, non sa che dire («Sono
perplesso, non so cosa dire», III, i, 221), Hubert, stretto tra un giuramento e
l’umanità non sa che fare, e Giovanni, il re, è costretto a interrogarsi sul
senso del suo stesso regno rivolgendosi a quei fenomeni naturali («Cinque
lune?», IV, ii, 185) che la ragione politica aveva già dimostrato pure
superstizioni (III, iv, 153-159); se i sudditi non sanno da che parte schierarsi,
e lo stesso Bastardo non sa decidere se Hubert è un assassino o un innocente
calunniato, la chiusura del quarto atto, col monologo finale del Bastardo, è la
somma di tutte queste domande e un primo gesto verso quella risposta che
verrà data nel movimento finale costituito dal quinto atto. Sono due, infatti,
gli aspetti da sottolineare nel monologo che chiude il quarto atto: da un lato
il Bastardo, che agisce qui ancora come figura esterna all’azione, in funzione
di coro, dà voce e corpo all’incertezza e al dubbio generale − «Vago come in
un sogno, credimi, e son smarrito / tra le spine e i pericoli di questo mondo»
(IV, iii, 140-141) − di fronte al mondo nuovo che ha divorato ogni certezza −
«La vita, la giustizia e la verità di questo regno / sono volate al cielo» (IV, iii,
144-145) − e ridotto il corpo lacerato della maestà al suo «osso spolpato»
per il quale «una canea guerresca drizza il suo irato cimiero» (IV, iii, 148-
149); dall’altro, l’identificazione dell’Inghilterra col corpo sconfitto di Arthur;
«questo pezzo di morta regalità» (IV, iii, 143), invece che con quello del
sovrano vincente, apre nuove prospettive. Per dirla con R. Berry, l’atto
conclusivo dovrà trovare «una giustificazione per il discorso che sappiamo
concluderà il dramma, e che così spesso è stato visto come un pezzo
pretestuoso di retorica nazionalista designato a mascherare con gli applausi
finali la debolezza della conclusione» (R. Berry, The Shakespearean
Metaphor, London 1978, p. 33). Molti critici hanno giudicato fallimentare
l’ultimo o addirittura gli ultimi due atti del dramma, ma ci pare che questa