Page 8 - Shakespeare - Vol. 2
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Secondo  tale  prassi,  Shakespeare  avrebbe  adottato  strutture  drammatiche
          preesistenti modificandole, però, nei loro connotati tematici e ideologici, e in
          particolar  modo,  in  questo  specifico  caso,  accentuando  l’ambiguità  della
          figura reale; sviluppando a dismisura, quasi rendendolo vero protagonista, il

          personaggio  del  Bastardo,  cui  sono  affidati  i  monologhi  più  importanti  del
          dramma, senza precedenti nelle fonti; e dando infine ampio spazio a quelle
          figure  femminili  come  Eleonora,  e  soprattutto  Constance,  che  costituiscono
          uno dei trionfi non indifferenti dell’opera.

          Per ciò che riguarda il testo, infine, come si è già detto, il King John appare
          per la prima volta nell’edizione in-folio del 1623, al primo posto nella sezione
          Histories,  anche  se  non  figura  tra  i  sedici  drammi  dei  quali  E.  Blount  e  S.
          Jaggard, due degli editori dell’in-folio, avevano chiesto l’8 novembre 1623 il

          copyright,  registrandoli  sullo  Stationers’  Register  come  «mai  stati  iscritti  a
          nome d’altre persone»: l’ambigua relazione con The Troublesome Reign, che
          dopo la sua comparsa anonima nel 1591 era stato ristampato nel 1611 e nel
          1622,  doveva  già  aver  cominciato  a  spargere  i  suoi  dubbi.  Se  molte

          perplessità suscita l’edizione del 1623, probabilmente composta e integrata
          da parti di diversa provenienza, le successive edizioni negli in-folio del ’32, del
          ’64 e dell’85 non portano variazioni, e non esistendo good o bad quartos, è su
          questo primo in-folio che tutti gli editori moderni hanno dovuto esercitare il

          loro lavoro filologico.



          C’è  una  scena  che  si  pone  al  centro  del Re Giovanni,  e  di  lì  allunga  i  suoi
          tentacoli connotativi su tutto il dramma: è la scena dell’incoronazione ripetuta
          i n IV,  ii,  che  se  da  un  lato  rimanda  indietro  all’incoronazione  primaria,

          dall’altro preannuncia la sua ennesima ripetizione, per mano di Pandolfo, in V,
          i. Se la cerimonia dell’incoronazione costituisce l’epifania del potere regale,
          sottolineandone la sacralità e offrendo quindi la rappresentazione tangibile e
          ritualizzata non solo del potere regale, ma dello stesso cosmo simbolico che
          lo sorregge e lo giustifica, qui, la sua ripetizione, o meglio, visto che è di una

          vera e propria malattia del potere quella di cui si parla, la sua coazione a
          ripetersi, produce una metafora di grande suggestione, capace di corrodere
          quel cosmo stesso che mette in scena. Quel «Eccoci qui seduti ancora una

          volta,  ancora  una  volta  incoronati»  (IV,  ii,  1),  mentre  sembra  fissare  la
          cerimonia  in  una  sorta  di  archetipo  della  ripetitività,  capace  di  bloccare  la
          storia  in  un  gesto  rituale,  apre  di  fatto  la  sacralità  del  sovrano  alla  critica
          tutta laica della politica, rivelata come brutale e cinica espressione dei giochi
          di potere in atto. La Storia diventa storia, un processo non più controllato da
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