Page 9 - Shakespeare - Vol. 2
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leggi  divine  e  da  schemi  provvidenziali,  ma  solo  da  interessi  e  necessità
          umani,  sin  troppo  umani.  Le  prime  battute  del  dramma,  con  la  loro  carica
          diretta d’interrogativi politici, c’introducono, del resto, direttamente al centro
          di quel dibattito che caratterizza la prima grande unità drammatica del play,

          e che si conclude, come faranno anche le due successive, con un monologo
          del Bastardo (II, i, 561-598): si tratta di esplorare tutte le possibilità etiche e
          semantiche implicite nel termine right, uno dei termini con più alta frequenza,
          sia come aggettivo che come sostantivo, nel Re Giovanni, che se si presenta,

          al suo primo apparire, accoppiato e quasi sinonimo di true (I, i, 7) finirà ben
          presto per staccarsene, unendosi prima a possession (I, i, 39) fino a venirne
          subito soffocato (I, i, 40).
          La borrow’d majesty (I, i, 4), insomma, rivela immediatamente a se stessa la

          propria  ingiustificabilità  in  quei  termini  sacrali  che  pur  tuttavia  vorrebbe
          ancora  indossare,  e  che  saranno  visti,  una  volta  indossati,  come  «ridicoli
          eccessi» (IV, ii, 16).
          E  la  scena  sarà  subito  raddoppiata,  sul  suo  versante  “privato”,  con

          l’apparizione del Bastardo ed il conseguente dibattito sui suoi diritti ereditari,
          dove termini quali «giustizia», «legittimità», «legalità» e «onestà» verranno
          posti gli uni contro gli altri sino a farne esplodere tutte le ambiguità.
          La  farsa  drammatica  del  confronto  tra  i  due  re  davanti  ad  Angiers,  nel

          secondo atto, col suo grottesco e simbolico scambio − «Parlate, cittadini, per
          l’Inghilterra; chi è il vostro re?», «Il re d’Inghilterra, quando sapremo chi è»
          (II, i, 362-363) non sarà che il corollario implicito dei tormentosi interrogativi
          politici, etici e giuridici che hanno increspato il primo atto, e l’impossibilità di

          decidere  a  chi  appartenga  la  città,  se  non  con  la  forza,  che  si  trasformerà
          poco  dopo  in  un  matrimonio  capace  di  mediare  gli  interessi  in  gioco,  si
          rifletterà indietro sull’impossibilità stessa di decidere che cosa è giusto, cosa
          è  legittimo,  se  non  ricorrendo  alla  più  disperata  tra  le  legalità,  quella  che

          invoca  il  possesso  come  legittimazione  di  se  stesso:  «Non  basta  la  corona
          d’Inghilterra  a  provarvi  che  sono  il  Re?»  (II,  i,  273).  Ma  la  corona,  come
          abbiamo  detto,  è  solo  il  culmine  simbolico  di  un  universo  gerarchicamente
          ordinato:  scardinato  quest’ordine,  ogni  equivalenza  andrà  perduta,  e  prima

          fra  tutte  quella  tra  l’essere  e  l’apparire,  tra  il  fisico  e  il  metafisico:  se
          Eleonora, all’inizio del dramma, poteva dedurre la vera paternità del Bastardo
          dai  lineamenti  del  suo  volto  (I,  i,  85-90),  in  un  suo  discorso  il  Bastardo
          metterà in crisi per sempre questa possibilità (I, i, 210-216), e inutilmente

          Constance,  più  avanti,  cercherà  di  stabilire  i  diritti  del  suo  Arthur
          sottolineandone  la  somiglianza  col  padre  Geoffrey.  E  d’altro  canto
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