Page 14 - Shakespeare - Vol. 2
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delusione col finale sia legata all’aspettativa di una fine tragica della figura di
          Giovanni, che invece ci viene sottratta proprio perché il tema del play non è
          “il gioco dei potenti” ma quello che ci resta dopo tale gioco: nonostante la
          sua struttura chiastica, legata ad una ascesa e ad un declino, il Re Giovanni

          non ci lascia di fatto là dove tutto era cominciato, a interrogarci ancora una
          volta sulla legittimità di una corona o sui perché di una fedeltà.
          Il dramma era iniziato con l’identificazione stretta fra re e nazione: nel corso
          della  vicenda  l’identificazione  si  era  capovolta,  culminando  nel  già  citato

          brano in IV, ii, 243-248 in cui era l’Inghilterra in rivolta a divenire simbolo del
          corpo del re malato. Ora, con il discorso del Bastardo, Inghilterra e Giovanni
          si  dividono,  così  come  metaforicamente  assistiamo  alla  scissione  tra  due
          Inghilterre,  una  che  è  volata  in  cielo,  e  una  che  è  invece  restata  a  «dar

          strattoni,  affannarsi,  dividersi  coi  denti  /  gli  interessi  non  rivendicati  d’uno
          stato che si gonfia d’orgoglio» (IV, iii, 146-147).
          Il quinto atto, e cioè il terzo e conclusivo movimento del dramma, sta tutto
          nel  dissolversi  della  figura  reale,  nella  sparizione  di  Re  Giovanni  e  nel

          tentativo  di  far  diventare  concreto  quel  nome  che  in  lui  s’identificava,
          Inghilterra.
          Re Giovanni non è costruito con la profondità interiore di un Macbeth che sa
          accettare sino in fondo le conseguenze morali e politiche di ciò che ha fatto,

          patendo  tragicamente  lo  sconvolgimento  di  quell’ordine  simbolico  che  ha
          contribuito a far crollare: con la scena in IV, ii, 208-229, dove Giovanni tenta
          di  negare  anche  a  se  stesso  la  responsabilità  dell’uccisione  di  Arthur,  il  re
          sparisce drammaticamente, per restare solo come funzione delegatrice di un

          potere  corroso  e  perduto,  e  quindi  ridotto  a  figura  di  dolore  simile  a
          Constance  (non  per  niente  le  uniche  scene  in  cui  Giovanni  tocca  la  poesia
          sono  quelle  in  cui  si  lamenta  e  muore).  E  difatti  l’ultimo  atto  inizia  con  la
          ripresa  parodica  di  una  cerimonia  d’incoronamento  che  diventa  di  fatto

          un’abdicazione  a  Pandolfo,  e  quindi  al  papato,  tanto  più  grave  quanto
          volontaria, nonostante Giovanni pensi il contrario − («pensavo che vi sarei
          stato costretto, e invece, / il cielo sia ringraziato, l’ho fatto volontariamente»,
          V, i, 28-29) −, e soprattutto inutile, dato che non servirà a fermare i Francesi

          (V, ii, 78 sgg.).
          A questa abdicazione mascherata ne seguirà immediatamente un’altra, per
          toglierci  ogni  dubbio  sul  vero  tema  di  quest’atto.  Di  fronte  alle  parole  del
          Bastardo  che  cercano  di  evocare  una  regalità  scomparsa  −  «Siate  grande

          nell’azione come lo siete stato nei pensieri, / non lasciate che il mondo veda
          la tristezza sfiduciata / e la paura governare i movimenti d’un occhio regale! /
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