Page 46 - Shakespeare - Vol. 1
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fallisce con Talbot, perché il condottiero inglese è un cavaliere tutto d’un
pezzo e si riconosce non solo come duce, ma come componente del suo
esercito (da cui, quindi, non si distacca mai), ben diversa sorte - morto
Talbot e reso impotente Gloucester, assieme alla generazione dei coetanei
di Enrico V - spetta al giovane Enrico VI, affascinato da una dama che non
ha neppure visto, solo perché Suffolk (a sua volta conquistato dalla
bellezza di Margherita) gliene illustra le doti sopraffine. Com’è giusto che
sia sul palcoscenico, la parola ne uccide più della spada, mentre i
personaggi cessano di essere exempla per acquistare una loro individualità
e i tableaux medievali perdono la loro armonia prestabilita, perché l’autore
dell’Enrico VI già nella prima parte deve raccontare l’imprevedibilità degli
eventi, la debolezza interiore degli esseri umani, il dominio delle ambizioni
e delle ingordigie personali. Il mondo patriarcale, sepolto con Enrico V, non
solo non resuscita, ma con la persistenza delle sue mitologie, offusca la
vista, impedisce di cogliere la novità delle situazioni - e allora giù a
invocare le comete e le maledizioni del cielo, o a prendersela con quella
puttana di Giovanna, mentre intanto ognuno si fa i propri calcoli, ed
emerge l’avidità curiale del villain Winchester, il machiavellismo
dell’ambiguo Riccardo di York, l’arroganza di Somerset, la cialtroneria di
Suffolk.
La scansione delle scene forma una serie di sequenze drammatiche,
mentre il drammaturgo sviluppa una tecnica che Hattaway non esita a
definire cinematograficamente simile al montaggio: essa isola e mette a
fuoco alcuni dettagli significativi, offrendo una interpretazione critica di
spezzoni storici accanto e sotto la levigatezza delle opposizioni etiche e dei
parallelismi bellici. Così, ad esempio, nel secondo Atto, la scena del
Giardino del Temple conserva una sua astratta dimensione giuridica, e
tuttavia si anima cromaticamente (e non solo) in quel fiorire di rose
bianche e rosse appuntate sul petto dei contendenti, con la promessa di
violenza e di sangue a malapena trattenuta nella gabbia del linguaggio
allegorico. Subito dopo, dallo spazio aperto d’un giardino si passa alla
chiusa cella dove è imprigionato Mortimer (un altro Enrico V sepolto vivo),
e qui, nel dialogo tra il vecchio morente (come tanti altri nell’opera) e il
nipote ansioso di recuperare titoli e prerogative nobiliari, la storia
dell’Inghilterra comincia ad acquistare la concreta dimensione di un
conflitto politico dagli effetti devastanti: Mortimer fa lo storico (dal punto di
vista degli York) e Riccardo di York pensa già alla corona e alle modalità
più adatte per far valere i suoi diritti. Infatti, nel seguito dell’opera, il
motivo della contesa dinastica si concentra sulla figura di Riccardo, la cui
rapida ascesa lo pone in diretto rapporto con il personaggio di Giovanna,
non senza che questo legame generi meccanismi ironici destinati a