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inadeguato e strumentale sia questo approccio etico. Anche la cospicua
folla di personaggi che calca le scene indica icasticamente che lo stato è
composto non solo da diverse fazioni nobiliari o ceti sociali, ma anche da
individui che sfuggono a qualsiasi norma, a una univoca definizione morale
(basti pensare alle accuse che si rivolgono a vicenda i nobili), e che dunque
non possono riconoscersi in nessuna ordinata visione allegorica. Nel corso
dell’opera, il gruppo dei contendenti si va comunque semplificando, finché
sul palcoscenico-mattatoio non rimangono che due, ben diversi, lottatori:
Enrico di Lancaster e Riccardo di York.
In questo universo in bilico tra la contemporaneità elisabettiana e un
passato, intravisto come origine e fondazione del presente nel suo impasto
di differenze e di affinità, dove la legge, quella di Dio e quella del sovrano,
non è in grado né di prevenire né di punire il tradimento e l’inganno, la
saldezza etica del morality play medievale si capovolge nel dramma della
degradazione dei princìpi evangelici, ampiamente e vanamente citati dal
re. Da ciò deriva quella tonalità ironica che, ben lontana dalla visione
eroica del teatro di Marlowe, è il contributo di Shakespeare alla voga tardo-
cinquecentesca delle cronache storiche. Invece delle figurazioni allegoriche
del teatro precedente e della vorticosa poesia dei superuomini marloviani,
troviamo «una complessa ma realistica lotta per il potere» (K. Smidt), a cui
tutti prendono parte e che nessuno è in grado di dominare dall’alto, né il
Protettore Gloucester, né i congiurati che vogliono sbarazzarsi di lui, né il
pretendente York.
Tutte le forme esterne della cerimonia e delle convenzioni sociali vengono
spazzate via nella seconda metà dell’opera. Disconosciute le gerarchie,
Cade ordina lo sterminio indiscriminato dei nobili, e i nobili si rivoltano
contro il loro sovrano. Cancellata la pietas di Enrico, anche Dio è morto e
una nuova umanità di ferro fa capolino nelle parole del giovane Clifford,
accanto al cadavere del padre: «... il mio cuore si muta in pietra: e finché è
mio, / rimarrà di pietra» (V, ii, 50-51).
Non a caso, la seconda parte dell’Enrico VI si chiude con un discorso di
Warwick, il maggiore alleato degli York. Esso vorrebbe suggerire l’inizio di
una nuova fase storica originata dalla vittoria yorkista di Saint Albans:
«Oggi, sulla mia mano, signori, è stato un giorno glorioso: / la battaglia di
Saint Albans, vinta dal famoso York, / sarà immortalata in tutte le epoche
a venire». Ma una simile interpretazione ha tutto il carattere effimero della
propaganda bellica. Del resto, anche Warwick cambierà partito, mettendo
le insegne di cui va tanto superbo al servizio del sovrano che ha appena
abbandonato. Anche Warwick, che sembra in grado di fare e disfare i re,
verrà travolto dalla guerra civile. Se neppure i re stanno saldi sui loro troni,
figuriamoci i kingmakers.