Page 326 - Shakespeare - Vol. 1
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Il corpo dello stato è malato, e così il suo capo. Cade ordina ai suoi di
marciare per Londra issando su un palo le teste di Lord Say e del cognato.
Warwick esamina con sguardo clinico il volto di Gloucester e vi ritrova tutti
i sintomi di una morte violenta (III, ii). Un gusto sensazionalistico,
senechiano, accompagna la rappresentazione del disfacimento dello stato.
Enrico sviene alla notizia della morte di Gloucester e recupera i sensi in
modo non propriamente regale (Somerset consiglia: «pizzicategli il naso»).
Il cadavere di Gloucester viene esibito in scena come su un tavolo
anatomico, e il re distoglie gli occhi dalla vista macabra, lanciandosi in un
lamento funebre che qualche commentatore ha trovato ipocrita, mentre
Warwick compie la sua opera di dissezione verbale su di esso. Altrettanto
sensazionale è la scena seguente, in cui l’agonia di Winchester preannuncia
i tormenti dell’inferno, che spettano a un prelato omicida. Nessun cenno di
espiazione, sollecitato dal re, stempera l’orrore dell’episodio: altro che i
segnali celesti individuati con tanto fervore da Enrico! In questa opera,
semmai, parla l’inferno, che era rimasto muto durante la cattura della
Pulzella nella prima parte della trilogia. Parla, infatti, la creatura
demoniaca convocata da streghe e negromanti al cospetto di Eleanor (I,
iv): i suoi oscuri presagi appartengono certo alla tradizione sibillina che è
propria di ogni messaggio sovrannaturale, ma indicano anche un deciso
sfrangiamento del linguaggio, una perdita di significati - etici, politici,
giuridici - che culmineranno, più ancora che nella terza parte dell’Enrico VI,
n e l Riccardo III, dove il nuovo monarca sarà appunto un supremo
manipolatore della parola, un fabbricatore di doppi sensi, di spregiudicate e
compiaciute falsificazioni verbali.
Nella seconda parte dell’Enrico VI nessuno dei contendenti (salvo, in parte,
Margherita e Riccardo di York) possiede una tale abilità istrionica,
limitandosi, ognuno di loro, all’insulto spesso grossolano, alla minaccia, alla
battuta beffarda sulle poco gloriose imprese francesi del rivale di turno.
Quanto più, nel corso del dramma, si sbriciola ogni residuo di autentico
spirito cavalleresco, tanto più la ritualità feudale, che dovrebbe
corrispondere alla cura di quello stato di cui i grandi Lord sono i «pilastri»
(Gloucester in I, i), lascia il posto a una serie di verifiche che prendono la
forma ora del cruento Giudizio di Dio, ora di un vero e proprio processo,
come quelli su cui presiede Gloucester fino alla sua caduta, o come le
parodie di giustizia promosse da Jack Cade nell’atto IV. Ogni forma di
giustizia appare però improvvisata, poco previdente, non equilibrata,
quando non palesemente immorale e vendicativa. Così Gloucester,
accusato di essersi dimostrato in passato giudice troppo rigido (e forse nel
caso di Simpcox non a torto), viene “giustiziato” per mano di sicari
prezzolati, mentre, nell’ultimo atto, la “giustizia” sollecitata da York contro