Page 25 - Shakespeare - Vol. 1
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felicità del «camminare eretti»).

Le commedie

Negli stessi anni Shakespeare scrive una serie di commedie pervase di vis
comica quasi aristofanesca, e d’una inaudita fusione di festosità e di
passione del conoscere. In un primo gruppo, fino a circa il 1602, i conflitti
che vi sono presentati (fra male e bene, vizio e virtù, ingiustizia e giustizia,
tirannia e libertà, fortuna e sfortuna, gaiezza e tristezza, com’è stato detto,
fra temi solari e temi ombrosi e lunatici) sono orientati al lieto fine dal
predominio di una corposa gioia di vivere, e di un ottimismo tutto razionale
e rinascimentale. I problemi e le discordanze dell’intreccio si risolvono in
un’armonia finale, sia pure screziata di toni dolceamari, elegiaci, ironici,
malinconici, a volte di un senso della natura precaria della felicità umana.
Ma una solarità fisica e terrena finisce sempre col vincere su quegli scrupoli
etici o metafisici che potrebbero guastare la festa della vita, che è anche
festa del linguaggio, della sua creatività e potenzialità fattiva. Sulla scena
inglese irrompe una brigata carnevalesca, chiassosa e colorita, per la quale
sono valori la ricchezza e la beltà, la gioventù e la sopraffazione, vizi le
condizioni opposte, e la vita è una gioia tale che val la pena di vivere in
ogni caso. Se l’ingratitudine umana è peggio del vento invernale, l’amicizia
falsa e l’amore folle, tuttavia life is most jolly, come canta Amiens in Come
vi piace. Visione della superficie multiforme e cangiante della vita (trame a
ripetizione di sorprese, equivoci, travestimenti, agnizioni), goduta con
spensierata giovinezza e avidità di quell’esistenza cosi nuova e
affascinante, traendo piacere anche dalla malinconia: una visione euforica,
come di certi stati di grazia in cui si è certi che tutto andrà bene, e infatti
tutto va bene. Un’umanità affaccendata, senza nulla del riserbo inglese, la
borghesia elisabettiana che in tono minore esprime l’avidità e la volontà di
potere dei grandi, la borghesia vitale, carnale, nella sua primavera, che
contro il disprezzo amletico del lavoro e della natura-letamaio scopre la
passione dell’agire e del produrre. O una nobiltà fastosa, capricciosa, che
gode di un’armonia di vita della quale abbiamo perduta ogni idea, e che
trova la forza portante, il senso della propria gioventù nel desiderio
amoroso, riscoperto nella sua pienezza egoistica dopo la repressione
medievale, come realizzazione amorale dell’individuo, luce dell’attimo e del
tempo breve, senza scrupoli e rimorsi, se non fosse guastata dalla
tendenza perversa dell’uomo a far amaro ogni dolce, la maledizione
sadomasochista di chi riempie l’amore di pene, anzi di pene d’amor
perdute, inutili, commoventi e divertenti come capricci e brevi dispiaceri di
bambini. L’amore, che qui non è il multiverso di Romeo e Giulietta e delle
opere mature, è amabilmente preso in giro come assurdità irrazionale,
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