Page 20 - Shakespeare - Vol. 1
P. 20
padrone del proprio destino, egli si scopre nella visione tragica un essere
incomprensibile in preda a forze incomprensibili. L’uomo di Shakespeare
come quello dei tragici greci è un deinòs cui si addice l’ambigua formula
eraclitea éthos anthròpo dàimon (il carattere per l’uomo è il dèmone): il
carattere è il dèmone-destino, e insieme il dèmone è il carattere. In altre
parole il carattere è l’agire e l’agire è il carattere. Non ha senso
contrapporre la tragedia greca come tragedia di forze esterne a quella di
Shakespeare come tragedia di carattere. Nei greci troviamo grandi
caratteri, in Shakespeare grandi forze esterne o interiorizzate: le forze non
si distinguono dal carattere, l’io è il dèmone, il dèmone è l’io.
Si dovrebbero riaccostare i tragici greci a Shakespeare non per studiarli
come fonti, né per quei confronti convenzionali che si concludono con una
ammissione di inutilità, ma per ritrovare l’identità profonda
dell’immaginazione tragica, come si concreta nei modi dell’esperienza
storica, organizzando i materiali che l’epoca mette a disposizione dello
scrittore nella situazione concreta della coscienza e dei fatti. La storia,
come sapeva Joyce, si ripete con una differenza. Gli studi di grecisti
anglosassoni, francesi e tedeschi hanno aperto la possibilità di ritrovare il
contatto profondo tra l’invenzione greca e la reinvenzione inglese, e di
capire meglio il mondo di Shakespeare, grande e autentico perché è un
rinnovarsi e rinascere di qualcosa che era stato inventato in Grecia, come
la filosofia, la storia, e tante altre cose. In principio, ricorda Jaspers, ci sono
i tragici greci. Essere originali, diceva Gaudí, è saper tornare alle origini.
Anche la tragedia elisabettiana e giacomiana fu uccisa dalla filosofia e
dalla religione. La congiuntura finì quando nel Seicento prevalsero il
puritanesimo e il razionalismo, ambedue negatori della aloghìa e
dell’ambiguità del tragediografo. La tragedia greca era stata parallela alla
sapienza presocratica e Socrate la uccise, come disse Nietzsche che però
accusò ingiustamente di razionalismo il grande Euripide. Ciò che uccise la
tragedia inglese si può ironicamente simboleggiare in quel Bacone al quale
si sono addirittura attribuite le opere di Shakespeare. Prima che dalla
squallida proibizione puritana, la tragedia fu spenta dalla baconiana
expurgatio intellectus, dalla visione monodimensionale - the single vision
di Blake - che trionfa con ciò che Thomas Browne chiamò the exhantlation
of Truth, la «riscoperta della Verità» che rispose a tutti i perché. Dal que
sçais-je? (che cosa so?) di Montaigne si passò all’enciclopedia baconiana,
dal mondo antropomorfico e analogico a quello meccanico delle energie e
forze fisiche, del resto irrazionalmente alleato col moralismo e le ideologie
dominanti. Venne Cartesio a separare dal mondo l’io pensante in idee
chiare e distinte, e tagliò la gola alla poesia. Vernant notava l’analogia fra
Aristotele e Dryden: ambedue non capivano più l’uomo tragico, e alla viva