Page 16 - Shakespeare - Vol. 1
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I greci e la tragedia

La grande tragedia, scrive Jaspers (1952), sorge nelle età di transizione,
sia in Grecia che nel mondo moderno, una volta sola in ciascun caso, e
quasi in un rapido processo di autocombustione, finché si perde in forme
estetico-culturali (epigonismo, teoria). Ma nel momento in cui si attua
sembra che solo allora l’uomo abbia aperto gli occhi sul mondo, e ponendo
le sue domande sul mondo abbia perduto la profonda serenità e armonia
col mondo delle età non tragiche, e si sia aperto lui stesso a una
inquietudine che non ha appagamento. La tragedia è l’invenzione greca,
anzi ateniese, di un modello formale, insieme letterario e teatrale, in cui un
mondo drammatico costituito dai “sottomondi” dei personaggi -
sottomondi cui appartengono tutti i sentimenti, le affermazioni, i giudizi e i
valori che si trovano nel testo - e che consiste nel rapporto conflittuale di
questi sottomondi, viene mostrato e non dimostrato, cioè non è veicolo di
tesi o messaggi, ma solo una ostensione che scatena domande alle quali
non si dà risposta né, come la visione implica, vi è risposta possibile. I
sottomondi del mondo drammatico sono anch’essi conflittuali: i personaggi
non conoscono se stessi né il senso delle proprie azioni, le quali aprono
ogni volta senza risolverlo il problema della libertà e della responsabilità, e
portano a risultati contrari ai loro progetti. Il mondo della tragedia si
sottrae a ogni spiegazione che non possa venire contraddetta da un’altra,
appare estraneo a ogni certezza, a ogni dogma e sistema di valori, nemico
della logica che pretenda di essere l’unico canale della conoscenza. Il suo
senso globale è un’interrogazione e non un’asserzione, è una somma di
inconciliabili che può formularsi razionalmente solo in modo precario e non
definitivo. Visione sinottica, cosmica, profondamente agnostica, immagine
di immagini del mondo, forma principe dell’ambiguo, della scepsi,
dell’ironia, e simbolo del mistero della vita. Questa è la visione tragica
quale si manifesta nella tragedia ma in seguito anche in altre forme
letterarie, ad esempio nella narrativa di Melville o di Dostoevskij. Ciò che
l’autore tragico ci trasmette è il suo senso tragico del mondo.
L’uomo, dice un famoso coro di Sofocle, è di tutte le cose portentose il più
portentoso (deinòs), un mistero che esiste su due dimensioni, quella
naturale e quella sovrannaturale, altrettanto misteriose. È un essere, scrive
Vernant (1972), il quale si coglie meglio in una domanda che in una
qualsiasi affermazione. L’eroe tragico, aggiunge Frye (1957), è grande
rispetto a noi spettatori, piccolo rispetto al trascendente indefinito, tra il
quale e noi egli è mediatore. La fonte della sua grandezza, del suo
carisma, non è valutabile con criteri etici, anzi è imperscrutabile.
I tragici greci operarono, è legittimo pensare, in una congiuntura
favorevole i cui coefficienti furono la natura non dommatica né costrittiva
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