Page 17 - Shakespeare - Vol. 1
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della religione greca, la fase di libero sviluppo del pensiero tra teologia
arcaica e dommatismo logico dei grandi sistemi filosofici, la formazione di
un’etica della pòlis di contro all’antica etica dei ghennàioi, la situazione
della democrazia ateniese e la sua organizzazione della cultura tra le
vittorie sui Persiani e la catastrofe peloponnesiaca. In queste condizioni
essi adoperarono come materiale i miti con la loro carica di universalità (un
mito è come i vangeli, asserisce qualcosa che è certo, presuppone un
assenso immediato e una fede) e con un processo di problematizzazione,
di avvicinamento e allontanamento (Vernant) li ristrutturarono in forma
tragica. Furono essi a inventare la rappresentazione pluralistica dell’anima
(Nilsson, Dodds, Snell, Untersteiner, Vernant) e del “multiverso” umano,
logico e alogico, terreno e divino, estremamente pregevole e vano. Ma
oltre a inventare la rappresentazione della psiche e dei suoi rapporti che è
ancora in gran parte alla base del pensiero moderno, essi diedero voce alla
prima forte esigenza di libertà della mente umana che si scopre autonoma
da rivelazioni e dogmi, si interroga su se stessa e getta, come scrisse
Nietzsche, «uno sguardo nell’essenza delle cose». Perciò è profondamente
errato chiamare Eschilo un teologo ed Euripide un razionalista.
I tre tragici greci che conosciamo incominciarono a essere fraintesi o
contrastati già in vita dai primi grandi filosofi etici (Socrate e Platone), e
non furono più capiti quando, al volgere del V secolo, tramontò in Grecia
l’immaginazione tragica insieme alla congiuntura che l’aveva resa possibile.
Il loro massimo affossatore fu Aristotele, la cui Poetica (scritta tra il 334 e il
323 a.C.), lungi dall’essere, come ancora si ripete, il prototipo della teoria
del tragico, è il primo documento dell’eclissi della visione tragica. Se è
indubbia la sua importanza come parte del sistema aristotelico e come
primo tentativo di teoria dell’arte e dei generi, per quel che riguarda la
tragedia greca del V secolo la Poetica è un modello storico di lettura assai
fuorviante: essa è di fatto un tentativo di rendere intelligibile qualcosa che
non si capiva più espurgando le opere tragiche della loro aloghìa, di tutto
ciò che non era lògos, razionalizzando una visione fondata sulla coscienza
dei limiti della ragione, moralizzando un mondo fantastico che rifiutava le
certezze morali, riducendo il mito a mero intreccio e imponendogli le regole
della verosimiglianza e del naturalismo. La famosa definizione aristotelica
della tragedia è una definizione in cui manca il tragico (H. Gouhier). La
catarsi, concetto del tutto inutile alla conoscenza e allo studio della
tragedia, ha suscitato una sterminata controversia che è «una delle
vergogne dell’intelletto umano, un monumento grottesco alla sterilità»
(John Morley citato da Lukács).
Starobinski in Tre furori ha sottolineato la riduzione della tragedia di Aiace
alla storia disgraziata di un malato, e infine di un pazzo, nei Problemata