Page 15 - Shakespeare - Vol. 1
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come cerniera dei due mondi, utriusque naturae vinculum, il contrasto fra
apparenza e realtà, la gerarchia dell’essere ecc.), quelli stessi in cui spesso
è stato visto il messaggio di Shakespeare, s’incorporavano nei caratteri e
diventavano parte funzionale del tutto che li trascendeva, sfaccettature
lampeggianti un istante in una rappresentazione inesauribile del gran
caleidoscopio dell’essere. Così i materiali delle fonti erano trasfigurati, con
consapevolezza e anche per invasamento teatrale, furor dramaticus e vis
tragica e comica, nell’ostensione assoluta del dramma, forma principe
dell’ambiguità e della coincidenza degli opposti. E senza che per fare
questo gli scrittori di teatro avessero una teoria, un metodo razionalizzato,
una coscienza filosofica di ciò che facevano. Operavano, dice l’Atkins che
ha indagato sulle poetiche elisabettiane, «per principi non formulati»,
istintivi e inconsci, rivaleggiando coi modelli classici che scatenavano in
loro un dèmone mimetico. A livello di consapevolezza, Shakespeare e gli
altri, da empirici in tutto e per tutto, si accontentavano dell’idea corrente
della mimesi fatta a fini morali, utile convenzione di mestiere che
rispondeva all’attesa dei fruitori ed era bene accetta alle autorità: una falsa
etichetta del prodotto culturale che è di tutti i tempi e che nulla aveva a
che fare con lo spirito delle loro opere, e forse neanche con le convinzioni
degli autori stessi, i quali probabilmente, nello scrivere i loro copioni,
pensavano di rappresentare la vita com’era e come la sentivano e basta, di
dire la verità - e in questo trovavano la dignità e la sacralità antica del
loro disprezzato mestiere.
L’emergenza della visione tragica, che quasi si svincola a fatica dagli
schemi medievali (tragedia nel Medioevo era una narrazione etica di un
tracollo di principi) per aprirsi al dubbio, all’interrogazione, alla ambiguità,
è documentata in modo lampante dal Doctor Faustus di Marlowe, dove
l’exemplum della fonte, mito religioso ed edificante, viene presentato in
modo problematico e da opposte angolazioni, in modo da trasformarlo in
una visione tragica. Marlowe è il primo drammaturgo a passare dalla tesi al
problema, dal dimostrare al mostrare. Shakespeare, suo coetaneo, porta
rapidamente alla maturazione la scrittura drammatica e, come fa lo spettro
con Amleto, «viene a sconvolgere l’essere in noi, gonzi della natura, con
pensieri oltre i limiti dell’umano». Kierkegaard, in Timore e tremore,
ringraziava Shakespeare per essere stato «capace di esprimere tutto,
assolutamente tutto, esattamente com’è». E in verità, per quanto riguarda
in profondo la scrittura teatrale, dopo di lui non c’è veramente nulla di
nuovo.

La visione tragica
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